Programmi Tv, i tweet rappresentano un potenziamento dell’audience?

di |

In tanti si addormentano mentre guardano un programma televisivo. I tweet invece offrono informazioni preziose sul reale gradimento del telespettatore.

Italia


Social Tv

L’audience passa sempre più dai social network. Twitter e Nielsen lo sanno bene, per questo hanno stretto un accordo.

Questa partnership, spiega Angelo Amoroso, CEO di Nielsen TV Audience Measurement in Italia, “consentirà di affiancare alla misura dell’audience di un programma una metrica nuova relativa al numero di persone che hanno “citato” il programma nei loro “tweets” sulla rete“.

 

Ecco, secondo Amoroso, i possibili indicatori, alcuni interlacciati con quelli classici derivanti da un meter panel:

 

  • Numero di tweets entro i 15 giorni successivi alla messa in onda del programma / contatti netti del programma;
  • Numero di tweets entro i 15 giorni successivi alla messa in onda del programma / popolazione del target;
  • Numero di tweets entro i 15 giorni successivi alla messa in onda del programma / tweets totali.

 

Per Amoroso, il senso di questi indicatori, o di altri simili che potranno essere sviluppati, è abbastanza immediato: riuscire a dare una misura della capacità del programma di creare una risonanza e di far parlare di sé anche dopo la messa in onda; ma quale utilità commerciale ne possono avere i nostri clienti? Come trasformare questa informazione in un valore per il programma e per la pubblicità a esso associata?

 

“Quando si sviluppano nuove metriche da affiancare a indicatori già esistenti è sempre in agguato il rischio che le prime siano fortemente correlate con le seconde. Mi spiego con un esempio su cui ho avuto una diretta esperienza: anni fa ho lavorato allo sviluppo di un indicatore di gradimento dei programmi televisivi che si basasse non su dichiarazioni d’intervistati ma su comportamenti oggettivamente misurati con un meter. L’indicatore combinava una misura della permanenza sul programma e della continuità di visione con una misura della forza della contro-programmazione. Una volta sviluppato questo indicatore per centinaia di programmi di diverso genere ho verificato che misurava talmente bene il gradimento da essere fortemente correlato con l’ascolto medio. Ovviamente mi aspettavo una correlazione tra le due misure – il telespettatore non è così masochista da guardare ciò che non gradisce – ma non me l’aspettavo così forte. Quando la correlazione è molto alta (*), per cui il nuovo indicatore è quasi una trasformazione lineare di un indicatore preesistente, la nuova misura serve a ben poco”.

 

L’audience indica mediamente quante persone sono in ascolto del programma: è la madre di tutti gli indicatori. Dire che una trasmissione ha avuto un ascolto medio di cinque milioni di persone vuol significare che mediando il numero d’individui all’ascolto del programma in ogni minuto della sua estensione temporale si ottiene proprio quel numero.

 

L’ascolto medio, continua Amoroso, è sempre stato la “croce e delizia” degli addetti ai lavori e di chi si occupa di costume e società in generale: da un lato è la miglior espressione del valore commerciale di un programma, sia per il programma in sé, sia per il suo ruolo di vettore di messaggi pubblicitari; dall’altro è considerato da alcuni sociologi, e spesso da molti giornalisti che si occupano di media, come la causa di certa cattiva televisione. Inseguire i numeri dell’Auditel non porta a fare programmi di qualità: questa è la tesi. Tanto che alcuni in passato hanno vagheggiato la costituzione di un “Qualitel“, una ricerca che misurasse la qualità dei programmi televisivi per contrastare l’iper-dominio dell’Auditel.

 

Anche se le misure di qualità non si sono mai affermate come standard di mercato, l’audience è sempre stata vissuta, nella più benevola delle accezioni, come un indicatore che ” da solo non basta”, mentre i più critici l’hanno considerata come il cavallo di Troia dell’anticultura, come qualcosa da togliere di mezzo il prima possibile per il bene della società. Per quanto quest’ultima tesi sia un’evidente sciocchezza (‘il termometro non è responsabile delle febbre!’ è una metafora un po’abusata ma rimane la migliore) è stata alla base di una stagione di attacchi alla currency che perlomeno ha fatto perdere un sacco di tempo ad argomentare difese del metodo e del sistema che poteva essere più utilmente impiegato.

 

“Quando cercai tempo fa di sviluppare un indice di gradimento che, beninteso, è cosa diversa da un indice di qualità, mi proponevo di trovare una nuova misura da affiancare all’audience che contribuisse anche a dare una risposta concreta alle posizioni più razionali di alcuni addetti ai lavori che ritenevano un po’ eccessivo che il dato di audience fosse arbitro unico con potere di vita e di morte sui programmi“.

 

La forte correlazione tra indice gradimento e ascolto medio, secondo Amoroso, ha vanificato il suo sforzo ma è servito a renderlo più consapevole che “l’audience è la più genuina espressione di ciò che piace alla gente in TV, anche se i detrattori di Auditel non volevano crederlo. Non credo si possa dire che un programma con un ascolto più elevato della media non sia anche mediamente più gradito. Semmai rimane il fatto che a parità di ascolto medio possano esserci differenze di apprezzamento da parte del telespettatore, ma il mio indicatore, probabilmente per la sua natura esclusivamente comportamentale e per niente valutativa (**), non era in grado di coglierle”.

 

Ora arriva il “Tweet” a occupare quel sedile lato guidatore che in fin dei conti è sempre stato vacante. Il “tweet” che però non ha niente a che vedere con la misurazione della qualità e nemmeno con il gradimento. Esprime, piuttosto, la capacità del programma di creare una risonanza dopo la sua andata in onda, di continuare a vivere per un po’ dopo che il televisore è stato spento.  

 

Ma che tipo di valore aggiunto può portare questa misura al programma stesso, posto che il dato di audience lo ha già valorizzato adeguatamente?

 

Amoroso osserva che ognuno di noi guarda la televisione e sa che si può stare davanti allo schermo con diversi gradi di attenzione: a un estremo abbiamo il comportamento tipico per tutto ciò che ci avvince e coinvolge emotivamente o razionalmente, e all’altro un atteggiamento distratto o addirittura “non vigile”, per usare un eufemismo. Il meter, l’apparecchio misuratore alla base del calcolo dell’audience, registra che una persona in un determinato momento sta guardando un certo programma, ma non traccia nulla del suo grado di attenzione o del suo coinvolgimento, e lo stesso vale per i messaggi pubblicitari veicolati dal  programma.

 

E’ probabile, sottolinea, quindi, Amoroso, che un contenuto poco coinvolgente lasci alle soglie del break pubblicitario un telespettatore più distratto, con meno endorfine in circolo, e se parliamo del dopo cena, talvolta un po’ sonnecchiante. Questa situazione non può essere tracciata da un meter che è collegato al televisore ma non al cervello delle persone. Perciò, dal punto di vista dell’audience misurata con questi apparati elettronici, un programma coinvolgente che crea engagement e discussione in rete è sullo stesso piano di un programma che non ha queste caratteristiche. Per questa ragione “il numero di tweets” di un programma può essere una sorta di “potenziatore” dell’Audience misurata nel people meter panel.

 

“Sicuramente scopriremo – commenta ancora Amoroso – che i programmi che hanno un elevato numero di tweets hanno anche un’audience elevata, anzi i primi studi negli Stati Uniti dimostrano proprio questo. Ma il punto non è il fatto che ci sia una correlazione, perché è ovvio che ci sia, il punto è che non sia una correlazione troppo forte e che a parità di audience ci siano programmi con un’apprezzabile e significativa differenza in termini di numero di tweets”.

 

A parità di audience i programmi più “twittati” dovrebbero avere più valore poiché il loro pubblico li ha seguiti con un livello di attenzione e di coinvolgimento superiore. E’ probabile che un pubblico che sta su un gradino di attenzione superiore durante il programma, mantenga quel delta di consapevolezza anche durante le interruzioni pubblicitarie.

Penso – ha quindi concluso Amoroso –  che questa nuova iniziativa di Nielsen con Twitter vada seguita con grande attenzione: i futuri studi sulla “resonance” non mancheranno di dare le necessarie dimostrazioni delle ipotesi che stiamo formulando, ma scommetto che quel posto vuoto lato guidatore sarà finalmente occupato”. (r.n.)

 

 

 _____________________________

(*) La forza della correlazione è determinata dal coefficiente di correlazione tra le due variabili.  Nel caso della relazione tra l’indicatore di gradimento (IG) e l’ascolto medio (AM) di un programma, mettendo in relazione le due variabili per centinaia di programmi si otteneva una nube di punti interpolabile con una funzione lineare del tipo:AM =  β* IG + eDove β è il coefficiente angolare della retta interpolante ottenuta con il sistema dei minimi quadrati ed “e” è l’errore residuo dopo che la variabile esplicativa (IG) ha spiegato la variabilità dell’ascolto medio. Il coefficiente di correlazione era circa  0,9 . Il valore massimo che può assumere il coefficiente di correlazione è 1. Quindi, come dicevo, la correlazione era molto forte. In caso di correlazione perfetta l’errore residuo è pari a zero, e una volta determinato il parametro β, si può passare dall’AM all’IG con una semplice moltiplicazione. E’ evidente che in questo caso estremo la nuova variabile non ha alcuna utilità poiché non ci dice nulla di più di quella preesistente.

 

(**) L’indicatore di gradimento si basava sulla misura di una condotta d’ascolto. Una visione continuata, senza interruzioni e cambi canale, dall’inizio alle fine del programma, soprattutto in presenza di una forte contro programmazione, significava gradimento. In questo senso dico che era una misura esclusivamente comportamentale. Non entrando in gioco giudizi o dichiarazioni dell’intervistato, sostengo che non c’erano elementi valutativi nella composizione dell’indicatore.