Big Data, addio all’anonimato? Ecco come i data broker riescono a sapere tutto di noi, anche (volendo) il nostro futuro

di Alessandra Talarico |

La FTC americana all’attacco dei data broker: operano oltre la legge. Un articolo sulla Technology Review del MIT lancia l’allarme: ‘Stiamo arrivando al punto qualsiasi forma di anonimato potrebbe essere ‘algoritmicamente impossibile’.

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La compravendita di dati personali via internet è ormai un business da molti miliardi di dollari l’anno, ma che spesso viene condotto in violazione delle leggi sulla privacy: lo ha appurato la Federal Trade Commission americana che lo scorso anno ha avviato un’indagine sulla pratiche commerciali dei ‘data broker’, quelle aziende – Acxiom, Experian, Epsilon tra i più noti – che raccolgono e vendono informazioni personali.

La scorsa settimana, quindi, la FTC ha inviato lettere di avvertimento a 10 di queste società – Brokers data, Case Breakers, Exact Data ConsumerBase, CrimCheck.com, PeopleSearchNow.com, U.S. Information Search, US Data Corp. e USA People Search – che non avrebbero rispettato le garanzie necessarie sulla vendita di informazioni personali.

 

Il data broker Acxiom possiede, ad esempio, qualcosa come 1.500 ‘frammenti di informazioni’ su più di 500 milioni di consumatori di tutto il mondo. Dati che le persone rendono di pubblico dominio quando partecipano a un sondaggio o si abbonano a una Pay Tv.

Acxiom utilizza informazioni quali il modello e l’anno d’immatricolazione della nostra auto, il nostro reddito, l’età, il cap, la scuola che abbiamo frequentato per stilare un nostro profilo completo e piazzarlo in uno dei 70 diversi cluster “PersonicX“, suddivisi in base al nostro stile di vita, gli interessi, le attività.

La società sostiene di poter predire, analizzando i dati a sua disposizione, come una persona potrebbe reagire di fronte a una campagna pubblicitaria. Musica per le orecchie degli inserzionisti, che per ottenere queste informazioni non badano a spese.

Secondo Forrester Research, le aziende americane spendono più di 2 miliardi l’anno per acquistare le nostre informazioni personali dai data broker: le utilizzano, generalmente, per confezionare pubblicità su misura, basate sui dati della nostra navigazione online, ma non solo.

 

“In giro c’è un’enorme quantità di informazioni personali su ciascuno di noi”, ha affermato Chris Calabrese, esperto in materia di privacy della Civil Liberties Union.

Questi dati, ha aggiunto, “equivalgono a una blacklist digitale che potrebbe ostacolarci quando cerchiamo un lavoro o chiediamo un prestito”.

Basti pensare, ad esempio, che soltanto Facebook memorizza circa 111 megabyte di foto e video per ciascuno dei suoi utenti (sono più di un miliardo) e che per stampare le interazioni di ciascun utente col sito, compresi i ‘like’, i messaggi di testo e gli indirizzi dei dispositivi utilizzati, occorrono più o meno 800 pagine.

 

Ma, nello specifico, cosa si intende per informazioni personali? Un interessante articolo di Patrick Tucker, sulla Technology Review del MIT aiuta a comprendere meglio l’argomento, partendo innanzitutto dalla definizione di dati personali introdotta dall’Unione europea con la Direttiva sulla Privacy risalente al 1995. La legislazione europea definisce ‘dati personali’ ogni informazione atta a indentificare una persona, direttamente o indirettamente, riferendosi all’epoca a cose come i documenti con un numero identificativo. Ma da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e anche la Commissione europea sta cercando di rivedere la Direttiva per adeguarla ai tempi digitali.

Oggi, spiega Tucker, “quella definizione comprende molte più informazioni di quelle che i legislatori europei avrebbero mai potuto immaginare, più di tutti i bit e i byte che circolavano nel mondo intero quando scrissero quella legge 18 anni fa”.

Oggi, aggiunge, un impiegato medio americano produce all’incirca 5.000 megabytes al giorno, incluso il download di film, i documenti word, le email.

Ma queste non sono, in realtà, che una minima parte delle tracce che ciascuno di noi produce quotidianamente, non solo navigando in rete, senza neanche rendersene conto.

Lasciamo tracce quando cerchiamo l’indirizzo di ristorante su Google, quando postiamo una foto su Facebook, quando attiviamo il GPS del nostro cellulare o anche, semplicemente, quando camminiamo per strada e veniamo ripresi da una telecamera di sorveglianza. Quello che è più inquietante, in effetti, è che i dati online e quelli offline possono essere correlati per aiutare le società di marketing a produrre pubblicità sempre più mirate sui nostri giusti e le nostre abitudini.

 

“In effetti più dati ci sono, meno possono essere considerati privati. Stiamo arrivando al punto che se ci sono incentivi economici per estrarre i dati, qualsiasi forma di anonimato potrebbe essere ‘algoritmicamente impossibile’, come ha spiegato il ricercatore informatico della Princeton University, Arvind Narayanan”, spiega Tucker che ricorda come con una quantità sufficiente di dati è perfino possibile predire il futuro di una persona.

“Lo scorso anno Adam Sadilek, un ricercatore dell’Università di Rochester, e l’ingegnere Microsoft John Krumm hanno dimostrato di essere in grado di predire la posizione approssimativa di una persona con 80 settimane di anticipo e con una precisione di circa l’80%”, ha spiegato infine Tucker.

 

Ce n’è abbastanza per rassegnarci al fatto che nessuno di noi può ormai sottrarsi all’occhio vigile del Grande Fratello: chiunque, pagando, può sapere tutto, anche quello che neanche noi immagineremmo…