Ricerca online, il Tribunale di Milano ci ripensa. Ma Google è responsabile o no del suo algoritmo?

di Raffaella Natale |

Secondo l’ultima sentenza, Google non lo è, ma nel 2011 sempre il Tribunale di Milano decise in modo opposto.

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Algoritmo di Google

Fa discutere la sentenza del Tribunale di Milano che solleva Google dalle responsabilità riguardanti i suggerimenti forniti con le funzioni Autocomplete e Ricerche correlate. I giudici ribaltano interamente quanto invece la corte meneghina aveva deciso nel 2011 in un caso analogo, quando alla compagnia californiana fu imposto il filtraggio di alcuni suggerimenti proposti dal motore di ricerca, ritenuti calunniosi da un imprenditore italiano (Leggi Articolo Key4biz).

 

Situazione simile anche per l’ultimo caso. A depositare una denuncia contro Google è stato questa volta il presidente di due associazioni no profit che s’era accorto che sul motore di ricerca il proprio nome e quella della sua fondazione venivano collegati a termini quali ‘truffa’, ‘truffatore’, ‘setta’ o ‘plagio’. L’uomo ha, quindi, avanzato una richiesta per risarcimento danni.

Ma, stavolta, diversamente da quanto successo in passato, il Tribunale di Milano non ha accolto la richiesta e negato la responsabilità di Google.

 

Ci troviamo davanti a due casi quasi identici ma con sentenze antitetiche.

 

Nell’ultima ordinanza il giudice ha chiarito che: “I termini visualizzati dagli utenti sulla stringa di ricerca attraverso la funzionalità Autocomplete, ovvero in fondo alla pagina di ricerca nella sezione Ricerche Correlate, non costituiscono un archivio, né sono strutturati, organizzati o influenzati da Google che, tramite un software automatico, si limita ad analizzarne la popolarità e a rilasciarli sulla base di un algoritmo […] trattasi di servizi della c.d. attività di “caching” svolta da Google al fine di facilitare, a loro richiesta, l’accesso ad altri destinatari di informazioni fornite da destinatari del servizio, senza che il prestatore del servizio, nella specie Google, sia responsabile del contenuto di tali informazioni a norma dell’art. 15 cit. D.Lgs.”. (Decreto legislativo 70/2003)

 

Nel 2011, invece, il Tribunale respinse le obiezioni di Google che sosteneva che “trattandosi di un software completamente automatico è evidente l’impossibilità – senza compromettere l’intero servizio – di operare un discrimine tra termini buoni e termini cattivi”.

 

Allora i giudici spiegarono che i risultati delle ricerche rispondevano a un “meccanismo predisposto dal motore di ricerca”.

In sostanza stabilirono che anche se il risultato dell’auto-completamento non dipende direttamente da Google, la sua visualizzazione avviene in forza di un algoritmo creato dalla stessa azienda. E accogliendo pertanto la richiesta di risarcimento danni, condannarono la compagnia americana al rimborso per i diritti lesi.

 

Oggi, diversamente, il Tribunale di Milano esclude per Google “la qualità di content provider“, per parlare di attività di catching, svolta “senza che il prestatore di servizio sia responsabile del contenuto di tali informazioni”.

L’accostamento “di termini in una stringa – si legge – non costituisce un’affermazione, bensì un suggerimento”.

 

Questa sentenza solleverà sicuramente un polverone. Ricordiamo che al momento Google è in attesa della pronuncia dell’Antitrust Ue per sospetto abuso di posizione dominante sul mercato della web search (Leggi Articolo Key4biz).

Si tratta di cose fondamentalmente differenti, ma che pongono al centro del dibattito sempre le query del suo motore di ricerca.

I ricorrenti accusano, infatti, Google di porre i propri servizi ai primi posti nei risultati di ricerca a danno di quelli offerti dai concorrenti. Anche in questo caso Google esclude la propria responsabilità, spiegando che i risultati sono ‘frutto di un algoritmo e non di una mano umana’. Una risposta che, però, non appare ovviamente convincente. Il dibattito è aperto.