Key4biz

OTT e lobbying: Google quello che spende di più

Stati Uniti


I big di internet – Google in testa – continuano ad aumentare la spesa destinata alle azioni di lobbying, volte a influenzare le decisioni dei decisori politici in loro favore.

Secondo i dati depositati presso la cancelleria della Camera dei Rappresentanti, Google ha speso 16,48 milioni dollari in attività di lobbying nel 2012, in aumento del 70% rispetto ai 9,68 milioni dollari dell’anno precedente, mentre le spese di Facebook sono cresciute del 196% a 3,99 milioni di dollari.

La società di Mark Zuckerberg e il re dei motori di ricerca cercano così, a suon di milioni di dollari, di allentare la pressione sulle loro contestate strategie di business, incentrate sull’uso massiccio dei dati personali degli utenti di tutto il mondo.

Solo nel quarto trimestre, in vista del lancio del nuovo servizio Search Graph, Facebook ha destinato alle azioni di lobbying 1,4 milioni, una cifra tre volte superiore (+318%) a quanto speso nello stesso trimestre del 2011, quando la spesa è stata di ‘soli’ 440 mila dollari.

 

Entrambe le società, in effetti, sono state ‘graziate’ dall’antitrust Usa – la Federale Trade Commission – che ha risparmiato loro sanzioni che sembravano inevitabili in cambio di impegni ritenuti decisamente blandi rispetto alle violazioni contestate (Leggi articolo Key4biz).

 

Le spese in lobbying di Facebook, sostengono gli osservatori, continueranno ad aumentare visto che la società sta spingendo per espandere la sua base utenti ai minori di 13 anni, sta sperimentando nuovi servizi basati sul riconoscimento facciale e sta diventando sempre più aggressiva sul fronte della pubblicità mobile.

 

Sono invece diminuite le spese in lobbying di Amazon e Apple: la prima, nell’ultimo trimestre dello scorso anno ha speso 690 mila dollari (-11,6%) anche se la spesa annuale è cresciuta del 12% nell’intero anno.

Apple ha speso, in tutto l’anno, 1,97 milioni di dollari, in calo del 13% rispetto ai 2,26 milioni dell’anno precedente (la spesa è cresciuta però del 20% a 540 mila dollari nell’ultimo trimestre, dai 450 mila spesi nello stesso periodo dell’anno precedente).

 

“Google e Facebook vorrebbero far credere di essere diverse dalle altre corporation, ma non lo sono. Stanno seguendo la corrotta tradizione aziendale di Washington: comprano ciò che vogliono”, ha affermato John M. Simpson dell’associazione Privacy Project.

 

In sua difesa, Facebook sostiene che queste spese abbiano finalità ‘educative’: la politica sarebbe, in sostanza, incapace di comprendere i mutamenti degli scenari tecnologici.

“La nostra presenza e crescita a Washington riflette il nostro impegno a spiegare come funzionano i servizi, le azioni necessarie per proteggere i nostri utenti, l’importanza di preservare un internet aperto e il valore dell’innovazione nella nostra economia”, ha spiegato un rappresentante dell’azienda.

Fraintendimenti o conclusioni paranoiche sarebbero, insomma, disastrose per le aziende del settore, le quali ritengono che spendere qualche milione di dollari a fronte di introiti miliardari può essere ‘un affare’.

 

Nel dettaglio, Facebook ha ‘orientato’, tra gli altri, i decisori sui temi relativi alla regolamentazione internazionale; alle restrizioni in materia di accesso a Internet da parte dei governi stranieri; alla libertà di espressione online; alle politiche federali su privacy, sicurezza, protezione dei minori e sicurezza; sicurezza delle informazioni online.

 

Google, invece, si è speso per le questioni relative alla regolamentazione della privacy e concorrenza in ambito pubblicitario; all’uso commerciale e trattamento delle opere “orfane”; alla riforma dei brevetti; sicurezza informatica; Do Not Track; open internet; alle leggi sui visti per lavorare negli Usa; apertura e concorrenza nei servizi online; cloud computing e pubblicità online; riforma fiscale internazionale; libertà di espressione e proprietà intellettuale negli accordi commerciali internazionali; accesso del governo alle comunicazioni; allocazione dello spettro; adozione della banda larga; white spaces; problemi con YouTube e Google Earth; accordi di libero scambio con la Corea, Colombia e Panama.

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