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WCIT12: si è aperta a Dubai la Conferenza mondiale sulle tlc. Gli occhi del mondo sulla sostenibilità di internet

Mondo


Ha aperto i battenti oggi a Dubai la Conferenza Mondiale sulle telecomunicazioni (WCIT-12) nell’ambito della quale per 11 giorni i 193 paesi membri dell’ITU (l’agenzia ONU che si occupa di telecomunicazioni) rinegozieranno – per la prima volta dal 1988 – il Trattato che regola il settore a livello mondiale.

Quando le regole internazionali sulle telecomunicazioni (ITRs) sono state ratificate 24 anni fa, internet e gli smartphone praticamente non esistevano e le comunicazioni erano soltanto vocali.

Appare dunque inevitabile aggiornare le regole per adattarle al nuovo contesto tecnologico.

 

Sullo sfondo del Summit si sta giocando una battaglia (a colpi di lobby) che – usando lo schermo della libertà della rete – nasconde motivazioni anche economiche con l’obiettivo di mantenere inalterato l’attuale modello di gestione di internet, favorevole solo alle web company americane che coi loro contenuti hanno invaso le reti senza investire nella loro realizzazione. Un modello operativo che può portare solo al degrado dell’infrastruttura.

 

E in effetti, la folta delegazione Usa (composta da 123 persone, tra cui i rappresentanti di Google, Facebook, Cisco, e altri), si oppone strenuamente alla revisione del Trattato, adducendo come argomento che internet non ha nulla a che vedere con le telecomunicazioni tradizionali ed è attualmente l’esempio puro e perfetto di un sistema democratico e decentralizzato che – come ha sottolineato il Chief Evangelist di Google Vinton Cerf – “non è governato se non attraverso un modello multi-stakeholder informale che rappresenta l’intera ‘comunità’ internet”.

Ma le cose non stanno proprio in questo modo.

Come nota, ad esempio, Jean-Christophe Nothias sull’Huffington Post, questa filosofia ha un senso solo se si escludono ‘tre piccoli dettagli’.

“Il primo: un governo – quello americano – che controlla la gran parte dei principali stakeholder ‘indipendenti’. Il secondo: non c’è una sede legittima e accessibile che assicuri pari opportunità a tutti i player della comunità internet. Il terzo: la maggiore mancanza di trasparenza è riscontrabile non in seno all’ITU ma all’interno di Google e della sua rete di partner statunitensi pubblici e privati che si accaparrano il grosso dei ricavi di internet, sia che arrivino dal marketing, dalla pubblicità, dal transito, dal peering, dall’infrastruttura, dal software o dall’hardware”.

 

Sui grandi principi quali la libertà della rete e la sua indipendenza da eventuali interventi governativi, si è cristallizzata la posizione americana cui si oppongpno al momento  a India, Brasile, Stati Africani e del Golfo, Cina e Russia, secondo cui Internet pone innanzitutto problemi di cyber security e la sua gestione va pertanto fattacui si  ricadere sotto l’ITU.

Proprio nel mezzo si colloca la proposta dei principali operatori tlc riuniti in ETNO, che chiedono la possibilità di stringere accordi commerciali con gli Over the Top.

In sostanza, le telco europee chiedono un modello operativo all’interno del quale sia possibile negoziare il pagamento – a carico delle web company – di tariffe ad hoc per assicurare che i loro servizi siano accessibili sulle reti degli operatori con la garanzia di una qualità del servizio. Bisognerebbe definire, insomma, un quadro preciso che preveda la possibilità di instaurare relazioni economiche tra le parti, senza impoverire l’infrastruttura di rete.

Scrive a questo proposito il quotidiano francese Les Echos: “Oggi, il 99,5% degli accordi avviene per stretta di mano tra l’operatore e il sito internet e i pagamenti sono estremamente bassi. Per gli attori del web e anche per gli operatori americani, tutto va bene così”.

 

Secondo Jean-Christophe Nothias dell’Huffington Post, una soluzione potrebbe essere rappresentata da un modello che combini quello attualmente in uso – basato sul modello cosiddetto ‘paying receiver‘ – con un sistema di ‘paying sender‘, così da modificare l’attuale distribuzione dei ricavi e far sì che sia chi invia che chi riceve i dati possa contribuire ai costi infrastrutturali.

In questo modo “i player americani dovrebbero pagare altri operatori nazionali e parte della redistribuzione dei ricavi potrebbe essere usata per assistere i paesi emergenti nella realizzazione delle infrastrutture a banda larga, riducendo il gap tecnologico e accelerando la crescita economica”.

“Google – tra i principali ‘mittenti’ del traffico web mondiale – potrebbe così continuare a usare liberamente la rete globale per cui non ha speso un centesimo. Ma – aggiunge Nothias – cambiare le ITRs per introdurre un nuovo modello di pagamento sarebbe rivoluzionario – una rivoluzione però sgradita agli interessi americani”.

 

Un altro argomento usato dalle web company a difesa della loro posizione intransigente è quello del ‘rischio censura’ da parte dei Paesi non democratici se alcuni aspetti della governance della rete passassero sotto l’ombrello dell’ITU. Ma, sottolinea sempre Nothias, “la realtà è che ogni paese oggi ha la possibilità di controllare il proprio cyberspazio, di bloccare o censurare ciascuno dei suoi cittadini. Allo stesso tempo – aggiunge – la censura della libertà di espressione su internet si è rivelata estremamente difficile come hanno provato i recenti tumulti che hanno sovvertito alcuni governi repressivi”.

 

D’altra parte Iran, Cuba, Cina o Russia non hanno bisogno di una revisione degli ITRs per mettere il bavaglio a internet.

Viene dunque il dubbio che tutti questi spauracchi sui rischi per la libertà della rete o sulla mano dei regimi repressivi che vogliono censurare la rete siano velatamente ipocriti e viene quindi da chiedersi: chi ci guadagna a distogliere l’attenzione dai veri temi centrali – tra cui lo squilibrio sistemico dell’attuale modello che fa pendere la bilancia in favore degli interessi americani –  utilizzando questi ‘falsi problemi’?

 

Internet appartiene a tutti e i benefici della rete non possono andare in direzione di un solo Paese, per quanto importante esso sia.

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