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Open data, a quanti fa paura la trasparenza? Il caso della Francia fa discutere

Francia


Mai quanto oggi, con l’attuale crisi di fiducia nelle istituzioni e nello Stato, il nostro Paese ha bisogno di open data, dati aperti per ‘vederci chiaro’, per avere trasparenza. Le ragioni potrebbero essere tante e tutte ampiamente giustificabili.

 

La nozione di open data è da intendersi come possibilità di accedere e riutilizzare pienamente i dati generati e detenuti dal settore pubblico. I dati e le informazioni la cui produzione e gestione è finanziata tramite fondi pubblici, inclusi quelli derivanti dalla ricerca scientifica, sono condivisi con i cittadini per la massimizzazione del loro potenziale sociale ed economico.

I dati delle amministrazioni pubbliche potranno essere usati per qualsiasi scopo, commerciale o non commerciale, ad esempio, per creare nuove applicazioni per gli smartphone, quali mappe, informazioni in tempo reale sul traffico, condizioni meteo, strumenti di comparazione dei prezzi e così via.

 

Ma al momento, in Europa, cosa si sta facendo realmente per gli open data?

 

In Italia, nel Decreto sviluppo bis, gli open data hanno un posto di rilievo, all’art.9 si dispone che “I dati e le informazioni forniti dalla pubblica amministrazione dovranno essere obbligatoriamente pubblicati in formato aperto (cd. open data). In questo modo sarà possibile ampliare fortemente l’accesso a informazioni di pubblica utilità, favorendone il riutilizzo per analisi, servizi, applicazioni e soluzioni, con sensibili ricadute dal punto di vista della crescita economico-sociale”. (Leggi Articolo Key4biz)

 

Il Miur li infila nella Carta dei principi di internet che presenterà al prossimo IGF di Baku, precisando che “I dati e le informazioni la cui produzione e gestione è finanziata tramite fondi pubblici, inclusi quelli derivanti dalla ricerca scientifica, sono condivisi con i cittadini per la massimizzazione del loro potenziale sociale ed economico“. (Leggi Articolo Key4biz)

 

E l’Unione europea spinge da tempo sugli open data e in questo contesto si inserisce la strategia che permetterà a cittadini e aziende di accedere alle informazioni pubbliche e riutilizzarle per fini commerciali e non e che dovrebbe dare un contributo all’economia europea quantificabile in 40 miliardi di euro all’anno (Leggi articolo Key4biz).

I dati, ha spiegato più volte Neelie Kroes, Commissario Ue per la digital Agenda, sono “il petrolio dell’era digitale”, renderli pubblici “non è solo un bene per la trasparenza, ma stimola anche la creazione grandi contenuti web e fornisce il carburante per la futura economia”.

 

La maggior parte dei dati, spiega la Ue, sarà messa a disposizione a titolo gratuito, o pressoché gratuito, salvo in casi debitamente giustificati: gli enti pubblici non potranno infatti addebitare costi superiori a quelli necessari per soddisfare una singola richiesta di dati.

“I contribuenti hanno già pagato per queste informazioni“, ha ribadito la Kroes, “il minimo che possiamo fare è quindi di restituirle a chi le vuole utilizzare in modo innovativo per aiutare le persone, creare posti di lavoro e stimolare la crescita”.

 

Eppure la Francia, considerata fino a poco tempo fa dalla Commissione Ue come uno dei Paesi apripista insieme al Regno Unito, s’è bloccata.

Doveva essere uno dei grandi cantieri dell’anno, dopo l’avvio del piano Etalab e l’apertura del portale data.gouv.fr lo scorso dicembre, ma adesso pare che l’open data sia stato accantonato. I numeri pubblicati sul sito sono fermi da mesi a 350 mila e sono tante le denunce di ‘strozzature’ amministrative.

Alla base potrebbe esserci il ripensamento del governo su alcuni principi essenziali come, per esempio, la gratuità dei dati. In tempo di crisi, alcuni avrebbero suggerito di far pagare l’accesso ad alcune informazioni, mentre finora s’era preferito limitare strettamente questi casi, così come predisposto anche dalla Ue.

Ma nell’esagono si starebbe riflettendo su quali dati possono essere resi pubblici e quali tra questi debbano essere gratuiti o a pagamento.

Una risposta potrebbe arrivare dal Piano speciale sulla digitalizzazione della PA che il governo dovrebbe rendere pubblico entro fine anno.

 

Alcuni, come l’ex presidente del Consiglio Nazionale del digitale, Gilles Babinet, temono che “si stia cercando di uccidere la trasparenza” e che in realtà l’aspetto finanziario sia solo un pretesto. Vendere i dati porterebbe, infatti, entrate quantificabili in centinaia di euro, niente di più. Da Etalab, intanto, si nega che ci sia al vaglio un progetto di commercializzazione dei dati.

 

La situazione pone, tuttavia, un problema importante per molti operatori di settore. Alcune start-up e fornitori di applicazioni attendono l’accesso ad alcuni dati, in particolare quelli sulla sanità, i trasporti, o l’occupazione. Ma tutto è in stand-by.

Per Gilles Babinet, “l’open data ha bisogno di un nuovo impulso politico, più che una nuova regolamentazione. I testi ci sono, ma è la trasparenza che fa paura”.

Basta pensare al progetto, poi abortito, di rendere pubbliche le spese di rappresentanza dei deputati. Davanti al rifiuto parlamentare, è stata lanciata una petizione che ha raccolto 130 mila firme a favore della trasparenza. Ma al momento dalla politica non è arrivata alcuna risposta.

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