Privacy: nuovo trend giurisprudenziale. La Cassazione estende le ipotesi di liceità dei sistemi di videosorveglianza dei dipendenti

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La Corte ha ritenuto che il consenso di tutti i dipendenti sia idoneo a sostituire legittimamente il preventivo accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali aziendali.

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Portolano Cavallo Studio legale

Pubblichiamo di seguito un contributo tratto da Portolano Cavallo INFORM@, Newsletter di Portolano Cavallo Studio Legale

 


Il contesto normativo

 

Il trattamento dei dati personali effettuato mediante l’uso di sistemi di videosorveglianza non forma oggetto di legislazione specifica.  Al riguardo, il Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196, recante il “Codice in materia di protezione dei dati personali” (di seguito, il “Codice Privacy“) si limita a stabilire (articolo 134) che il Garante per la protezione dei dati personali (il “Garante“) incoraggia l’adozione di un codice di deontologia e di buona condotta “per il trattamento dei dati personali effettuato con strumenti elettronici di rilevamento di immagini“.  Tale codice di condotta, tuttavia, ad oggi non risulta essere stato adottato dalle associazioni di categoria interessate.

Di conseguenza, in materia di trattamento dei dati personali effettuato tramite strumenti di videosorveglianza, si applicano le disposizioni generali del Codice Privacy, integrate dal “Provvedimento in materia di videosorveglianza” adottato dal Garante l’8 aprile 2010.

 

Seguendo i principi generali dettati dal Codice Privacy, il trattamento dei dati personali mediante strumenti di videosorveglianza è, in generale, lecitamente effettuato solo se:

 

(i) I soggetti video-sorvegliati siano stati oggetto di idonea informativa, ai sensi dell’articolo 13 del Codice Privacy;

(ii) I medesimi soggetti abbiano espresso il loro consenso libero, informato e specifico per il trattamento dei propri dati attraverso tali modalità (articolo 23 del Codice Privacy).

Con particolare riferimento al trattamento dei dati personali dei dipendenti mediante strumenti di videosorveglianza, tali principi generali devono coordinarsi con alcune rilevanti disposizioni della Legge 20 maggio 1970, n. 300, recante il c.d. “Statuto dei Lavoratori“.

 

In particolare, l’articolo 4, comma 1 dello Statuto dei Lavoratori stabilisce che “È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori“.  Pertanto, come specificato dal Garante nel citato provvedimento in materia di videosorveglianza, è vietato effettuare riprese finalizzate a verificare l’osservanza da parte dei dipendenti dei doveri di diligenza connessi al rispetto dell’orario di lavoro e della correttezza nell’esecuzione della prestazione lavorativa (ad esempio, orientando una telecamera sul badge dei dipendenti).

 

Devono poi essere osservate le garanzie previste dallo Statuto dei Lavoratori quando la videosorveglianza è resa necessaria “da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro“.  In questi casi, infatti, potrebbe sussistere in concreto anche una forma di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori; pertanto, gli impianti di videosorveglianza “possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna“.  In mancanza di tale accordo, è tenuto a provvedere l’Ispettorato del lavoro, su richiesta del datore di lavoro, determinando, se del caso, anche le modalità per l’uso di tali impianti.

 

È inoltre da rilevare che lo Statuto dei Lavoratori (articolo 8) vieta al datore di lavoro qualsiasi indagine relativa a fatti che non siano rilevanti per la valutazione delle capacità professionali del lavoratore, in particolare opinioni politiche, religiose e sindacali.  Pertanto, in caso d’installazione di impianti di videosorveglianza, vi è un rischio potenziale di venire meno anche a suddetto obbligo.

 

In caso di violazione delle predette disposizioni, è prevista l’applicazione di una sanzione amministrativa compresa tra Euro 30.000 ed Euro 180.000 (articolo 164, comma 2-ter del Codice Privacy) e, soprattutto, l’integrazione della fattispecie di reato di cui all’articolo 171 del Codice Privacy (che fa espresso rinvio all’articolo 38 dello Statuto dei Lavoratori), ai sensi del quale l’utilizzo di sistemi di videosorveglianza preordinati al controllo a distanza dei lavoratori o ad effettuare indagini sulle loro opinioni è punito, salvo che il fatto costituisca reato più grave, con l’ammenda da Euro 154 ad Euro 1.549 o con l’arresto da 15 giorni ad un anno.

Inoltre:

 

a. nei casi più gravi, la pena dell’ammenda e quella dell’arresto sono applicate congiuntamente;

b. quando, in considerazione delle condizioni economiche del condannato, si può presumere che l’importo massimo previsto per l’ammenda non sia sufficientemente efficace, il giudice può aumentarne l’importo sino ad Euro 7.745;

c. è altresì prevista la pena accessoria consistente nella pubblicazione della sentenza di condanna.

 

La sentenza della Corte di Cassazione n. 22611 del 17 aprile 2012

Il caso

Con la citata sentenza (emanata dalla III Sezione penale della Suprema Corte), la Corte di Cassazione si è pronunciata su un ricorso presentato dal legale rappresentante di una società condannato in primo grado per violazione dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori per avere fatto installare, senza aver raggiunto un accordo preventivo con le rappresentanze sindacali aziendali, un sistema di videosorveglianza composto da quattro telecamere, due delle quali inquadranti direttamente postazioni di lavoro fisse occupate da dipendenti.

La difesa del ricorrente si è prevalentemente basata sull’avere ottenuto, mediante la sottoscrizione di un apposito documento, il consenso di tutti i dipendenti all’installazione dell’impianto.  Pertanto, poiché il reato in questione è punibile solo in caso di dolo, secondo la difesa non poteva ipotizzarsi l’esistenza di una volontà del datore di lavoro preordinata al controllo illecito dei propri dipendenti, in quanto agli stessi era stato richiesto il consenso preventivo e, in ogni caso, sul luogo di lavoro erano stati installati numerosi cartelli che indicavano la presenza di impianti di videosorveglianza.

 

La decisione

La Corte di Cassazione ha dato ragione alla società ricorrente, stabilendo che non costituisce violazione dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori l’installazione da parte del datore di lavoro di un sistema di videosorveglianza, anche avvalendosi di telecamere inquadranti direttamente la postazione dei dipendenti, nel caso in cui sia stato acquisito da parte di tutti i dipendenti il consenso espresso all’installazione dell’impianto attraverso la sottoscrizione di un documento esplicito.

 

In sostanza, la Suprema Corte ha ritenuto che il consenso di tutti i dipendenti sia idoneo a sostituire legittimamente il preventivo accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali aziendali.

Ad avviso della Corte di Cassazione, infatti, pur non essendo stipulato il predetto accordo, “logica vuole che il più comprenda il meno sì che non può essere negata validità ad un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una loro rappresentanza“.

 

In aggiunta, la Corte, pur non pronunciandosi direttamente sul punto, sembra aver indirettamente affermato che nel caso in questione mancava anche il dolo del datore di lavoro, sulla base del fatto che erano stati installati dei cartelli che segnalavano la presenza del sistema di videosorveglianza.

 

Considerazioni conclusive: la possibile diminuzione dell’ambito di tutela dei lavoratori in materia di videosorveglianza

 

La pronuncia esaminata sembra aprire un nuovo trend giurisprudenziale della Corte di Cassazione.

In precedenza, infatti, la Suprema Corte aveva mantenuto un approccio più “formalistico” nell’applicazione dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori, configurando il reato di illecita installazione di strumenti di videosorveglianza limitandosi ad acclarare la mancata stipulazione preventiva di un accordo tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali aziendali (sul punto, in particolare, v. Corte di Cassazione, Sezione III penale, sentenza 15 dicembre 2006, n. 8042).

 

Ciò detto, la sentenza in esame potrebbe aprire la strada ad un’interpretazione delle disposizioni in materia di videosorveglianza contenute nel Codice Privacy (nonché nei provvedimenti attuativi del Garante) e nello Statuto dei Lavoratori meno favorevoli ai lavoratori che in passato, determinando una diminuzione della relativa tutela.

Come anticipato, la Corte di Cassazione ha ritenuto che il consenso di tutti i dipendenti all’installazione dell’impianto di videosorveglianza sia un idoneo sostituto dell’accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali; anzi, ha lasciato intendere che tale consenso sia anche più efficace dell’accordo stesso, poiché proveniente dalla totalità dei lavoratori e non da una loro rappresentanza.

 

Alla luce dei principi generali dettati dal Codice Privacy, però, non è prevista la possibilità di una manifestazione “collettiva” di consenso da parte di una pluralità di persone, ma solo la prestazione di tanti consensi individuali quante sono le persone coinvolte, e sarebbe ragionevole sostenere che il consenso individuale di tutti i dipendenti (da un lato) e l’accordo ottenuto a seguito di una trattativa sindacale (dall’altro) non abbiano oggettivamente la medesima efficacia in termini di tutela dei lavoratori contro un eventuale illecito trattamento dei loro dati personali da parte del datore di lavoro.

Le rappresentanze sindacali aziendali, infatti, non possono essere viste, seguendo un approccio meramente quantitativo e (questo sì) formalistico, come un insieme di lavoratori numericamente meno significativo della totalità dei dipendenti di un’azienda.  Al contrario, deve essere posto l’accento sul rilievo qualitativo rivestito dai lavoratori organizzati in sindacato: la capacità di negoziazione del contenuto di un accordo da parte delle rappresentanze sindacali, infatti, appare senz’altro più tutelante nei confronti dei lavoratori rispetto alla mera apposizione di una firma su un documento predisposto unilateralmente dal datore di lavoro.

 

Inoltre, la semplice apposizione sul luogo di lavoro di cartelli indicanti che l’area è videosorvegliata non può ritenersi un elemento decisivo (come parrebbe essere sostenuto dalla Suprema Corte) al fine di escludere il dolo del datore di lavoro.  Un’interpretazione del genere, infatti, renderebbe il reato di illecita videosorveglianza in concreto configurabile in ipotesi eccessivamente marginali (ossia solo quando il datore effettui la videosorveglianza in assenza di qualsiasi forma di consapevolezza da parte dei lavoratori). L’avere apposto i cartelli identificativi della videosorveglianza (ossia, l’aver adempiuto all’obbligo di informativa stabilito dal Codice Privacy e dal Garante) non preclude, di per sé, la possibilità che, in concreto, attraverso l’impianto di videosorveglianza si persegua un (illecito) controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.

 

In conclusione, al fine di valutare l’effettiva portata innovativa della recente decisione in commento, è opportuno attendere ulteriori pronunce confermative delle sezioni semplici o un eventuale intervento delle sezioni unite della Suprema Corte.

 

 

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