Digital Agenda: ‘Favorire la prospettiva di una corretta remunerazione degli investimenti per recuperare il gap nell’NGN’

di |

Per l’Istituto per la Competitività se non si troverà un giusto equilibrio e non si creeranno le giuste condizioni per ripartire la nuova ricchezza in modo equo tra telco e OTT, si mancheranno gli obbiettivi fissati dalla Digital Agenda.

Italia


Download

L’Italia si colloca al di sotto della media Ue in termini di penetrazione della banda larga fissa (presente solo nel 49% delle abitazioni) e di apertura ai nuovi entranti sulla rete fissa ma, nonostante queste e altre problematiche che frenano lo sviluppo futuro delle NGN – tra cui anche e soprattutto la mancanza di un quadro regolatorio chiaro per la nuova rete in fibra e la mancanza di politiche pubbliche nazionali a sostegno del settore – si scorgono diversi elementi che fanno pensare che il nostro Paese riuscirà a superare l’attuale gap infrastrutturale nei confronti degli altri big europei. Primo fra tutti, la disponibilità mostrata dagli operatori privati ad incrementare gli investimenti nella fibra ottica.

 

È quanto emerge dallo studio di I-Com, Istituto per la Competitività, sulla diffusione delle reti di nuova generazione, dal titolo “Goodbye Digital Agenda? Livello e remunerazione degli investimenti privati nelle reti di nuova generazione”.

Nell’ambito di questo studio l’Istituto ha elaborato – l’IBI, I-Com Broadband Index – indicatore in grado di offrire una sintesi del livello di sviluppo dei mercati delle reti broadband, in fibra e mobili, dei Paesi aderenti all’Unione Europea, in base alle perfomance registrate nel 2010. Secondo i risultati dello studio I-Com, l’Italia ha un IBI pari a 4,5: un valore piuttosto basso dal momento che la scala di riferimento ha come valore medio 5 e le performance registrate si inseriscono in un range che va da 2,7 della Bulgaria a 8,8 della Svezia.

Per fare un paragone, la Germania grazie ai buoni tassi di penetrazione della banda larga (presente nel 75% delle abitazioni) con prezzi al disotto della media, ottiene un indice di 6,5 punti, il Regno Unito, al di sopra delle media nella maggior parte delle voci considerate dall’indicatore, ottiene un indice di 6,3 punti, mentre la Francia, grazie soprattutto alla buona copertura della broadband fissa (67% delle abitazioni), al buon livello di competitività del mercato e bassi costi di accesso, ottiene un indice di 5,8 punti. Solo la Spagna, tra gli altri “big” si attesta alle spalle dell’Italia, con 4,0 punti: a pesare di più sono gli alti costi di connessione e il basso livello di concorrenzialità del mercato.

In testa alla classifica si collocano i Paesi scandinavi. Al primo posto troviamo la Svezia, che deve il suo notevole indice di sviluppo agli altissimi livelli di copertura della rete broadband sia fissa che mobile, al secondo posto si colloca la Danimarca, con un IBI di 7,1 punti, al di sopra della media europea quasi per tutte le voci considerate, fatta eccezione per il livello di apertura del mercato della telefonia fissa ai nuovi entranti, mentre al terzo segue la Finlandia, con un IBI pari a 6,7 punti. Fanalino di coda di questa speciale classifica è la Bulgaria con un indice pari a 2,7 punti, a causa del basso livello di penetrazione della broadband fissa  (solo 16%), dei livelli medio bassi di sviluppo della fibra, e della scarsa copertura del 3G nel mercato mobile.

 

Nonostante l’evidenza di uno scollamento tra la situazione italiana e quella di altri paesi europei in termini di sviluppo del broadband, nel nostro paese si prevede un livello di investimenti che supererà quello di Francia, Germania, Regno Unito e Spagna.

Se, tra il 2006 e il 2010, in Italia gli investimenti sono stati di 297 milioni di euro, per il quinquennio 2011-2015 saranno pari a 924 milioni all’anno, attestandosi a un livello superiore di quello degli altri big europei. La Francia, ad esempio, passerà da 319 a 800 milioni, il Regno Unito da 363 a 813 e la Spagna da 184 a 509. Minori saranno gli incrementi previsti dalla Germania che partiva già bene con investimenti pari a 682 milioni tra il 2006 e il 2010, per arrivare a 866 milioni tra il 2011 e il 2015.

 

Con un tale livello di investimento medio annuo, di poco inferiore agli 800 milioni di euro, si può stimare un totale di 4 miliardi di euro in 5 anni, vale a dire 8 miliardi in 10 anni. Tali cifre, alla luce della situazione attuale, possono consentire la realizzazione di una rete che permette la copertura di circa il 50% della popolazione, ovvero di portare l’ultrabroadband in tutte le “zone nere” ed in parte di quelle “grigie”.

 

Una cifra che potrebbe anche aumentare se gli operatori alternativi fossero messi in condizione di effettuare maggiori investimenti, in un quadro di maggiori certezze sulle modalità e sui costi dell’accesso all’infrastruttura di rete.

 

Lo sforzo economico richiesto per la realizzazione di una rete in fibra ottica – nota quindi I-Com – dovrà concentrarsi verso una sola infrastruttura e richiederebbe anche una pianificazione strategica che coinvolga l’intero sistema Paese.

Bisogna, dunque, agevolare le partnership e i progetti di co-investimento che, spiega l’Istituto “senza limitare l’autonomia delle singole imprese, permettono di contenere i costi e di mantenere per l’utente finale un’ampia scelta tra i diversi soggetti”.

Alla luce poi dell’incertezza del contributo statale – che in altri paesi come Francia, Germania ed Regno Unito si attesta sui 600-700 milioni di euro complessivi – “diventa assolutamente strategico lo sviluppo della banda ultra-larga mobile, specialmente per servire le aree più difficili da raggiungere con la rete in fibra”.

 

Tutto questo sforzo è imprescindibile per assicurare lo sviluppo di nuovi mercati e il sostegno a una domanda di connettività sempre più forte ed estesa, trainata dal crescente consumo dei contenuti forniti dagli operatori Over the Top (OTT), che si configurano come i maggiori consumatori di banda.

A questi player – tra i quali spiccano YouTube, Facebook e Skype – va riconosciuta, sottolinea I-Com, “l’abilità di aver saputo interpretare meglio di altri player più “tradizionali” le potenzialità di internet”, nonchè il ruolo fondamentale “di driver della domanda”.

Il loro avvento ha sradicato equilibri ormai consolidati nel settore delle telecom, contribuendo alla creazione di nuovi modelli di business – non sempre compatibili con le regole che i mercati delle telecomunicazioni cercano, faticosamente, di darsi e di rispettare – e alla determinazione di profondi mutamenti nella catena del valore dei prodotti.

È pertanto necessario non disperdere le opportunità rappresentate da questi nuovi mercati, ma è anche indispensabile trovare il modo di ripartire la nuova ricchezza in modo equo: la prospettiva di una corretta remunerazione degli investimenti nelle nuove reti è una condizione indispensabile per incentivare gli operatori. 

 

In conclusione – sottolinea I-Com – se non si troverà un giusto equilibrio e non si creeranno le giuste condizioni per dare maggiore garanzia sui ritorni sugli investimenti effettuati, si corre il rischio di mancare gli ambiziosi obbiettivi fissati dall’Agenda digitale europea, nonostante gli ingenti sforzi messi in capo dagli operatori.

 

 

Consulta la versione integrale dello studio I-Com