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Bolla o non bolla? L’accordo Microsoft-Skype riapre il dibattito

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La recente operazione da 8,5 miliardi di dollari che ha portato Skype nelle mani di Microsoft riaccende i timori di una possibile nuova bolla speculativa come quella delle dotcom, esplosa nel 2000. “In una Silicon Valley dove gli stipendi offerti ai talenti del web 2.0 si avvicinano ormai a quelli delle stelle di Hollywood”, dice il settimanale The Economist, si attende con impazienza la quotazione in borsa delle star dei social network, con Facebook e Twitter che sul mercato secondario vengono valutate, rispettivamente, 76 miliardi di dollari (più di Boeing o Ford) e 7,7 miliardi. LinkedIn, il social network per i professionisti, sta per sbarcare in Borsa e attende un’IPO da almeno 3,3 miliardi di dollari. Skype è stato acquistato da Microsoft a un prezzo pari a 10 volte il suo fatturato e 400 volte il reddito operativo.

Si tratta di compagnie molto giovani, ma con milioni di clienti e già proprietarie di un marchio riconosciuto in tutto il mondo, ma la stessa euforia è espressa dagli investitori del mercato privato verso le nuove startup: è il caso, ad esempio, di Color Labs: il social network ideato per gli smartphone creato da Bill Nguyen si è assicurato finanziamenti per 41 milioni di dollari da diverse società di venture capital, prima ancora che l’app destinata agli iPhone e ai cellulari Android veda la luce. Il suo valore, dice Nguyen, è già arrivato a 100 milioni di dollari, e Color non è l’unica social start up ad attrarre l’interesse dei fondi di venture capital: Path, società fondata dall’ex manager Facebook Dave Morin e centrata sulla condivisione di foto, ha ricevuto 8,5 milioni di dollari dalla Kleiner Perkins Caufield & Byers e Index Ventures e avrebbe anche avuto contatti con Google in vista di una possibile acquisizione.
Yobongo, un’app per iPhone che permette agli utenti di chattare con persone situate nella stessa area geografica, ha raccolto fondi per 1,35 milioni di dollari. A gennaio GroupMe, che offre un servizio simile, ne ha raccolti 10,6 milioni, mentre Facebook ha messo le mani su Beluga, proprietaria di un sistema di messaggistica per i cellulari e questa settimana ha acquisito Snaptu, società israeliana specializzata nelle applicazioni internet per cellulare.

 

La storia, dunque, sta per ripetersi?

“Quelli che sostengono di no – spiega The Economist – sottolineano che dagli anni 90 molto è cambiato sotto il cielo dell’hi-tech: allora, poche persone erano collegate a internet, oggi sono più di 2 miliardi, molti dei quali in mercati  di ‘nuova connessione’ come la Cina. Mentre fino a una dozzina di anni fa le connessioni ultrabroadband erano rare, oggi sono dovunque”.

Le start up degli anni ’90, inoltre, avevano “enormi ambizioni e profitti gracili”, mentre oggi, stelle nascenti come Groupon e Zynga “registrano vendite fenomenali e utili rispettabili”. E a sostegno delle loro tesi, coloro che affermano che stavolta è diverso sottolineano anche che la bolla degli anni ’90 si è estesa solo dopo la quotazione in Borsa delle società, quando “ingenui investitori ne hanno pompato il prezzo a livelli folli”.

Ora, invece, le IPO sono state ancora poche, mentre l’indice Nasdaq – un riferimento per l’industria hi-tech – sta salendo ma è ancora molto al di sotto del picco registrato a marzo del 2000.

 

In un certo senso, gli ottimisti hanno ragione: “questa volta è diverso, perchè la bolla si sta formando ‘di nascosto’ sui mercati privati e ha una dimensione globale che mancava a quella precedente”, dice The Economist sottolineando inoltre che sono per lo più ricchi investitori che hanno fatto fortuna durante il boom delle IPO negli anni ’90 a pompare la bolla, combattendo l’uno contro l’altro per accaparrarsi una fetta delle start up del web.

Questo boom ha anche orizzonti più vasti del precedente, avviato presumibilmente dagli investitori russi. Skype è nato in Estonia. La finlandese Rovio, che produce il popolarissimo gioco per smartphone Angry Birds, ha raccolto fondi per 42 milioni di dollari, mentre le start up cinesi riescono a raccogliere 15-20 milioni di dollari già alle prime richieste di finanziamenti.

 

“Queste differenze avranno importanti conseguenze: la prima – spiega The Economist – è che la bolla che si sta formando nel mercato privato potrebbe essere diventata già abbastanza grande quando arriverà su quello pubblico. Facebook potrebbe diventare il nuovo Google e LinkedIn ha prospettive sui profitti abbastanza solide. Ma saranno seguiti da robuste schiere di aspiranti Facebook e LinkedIn meno solidi, i cui prezzi saranno stati gonfiati pericolosamente dagli investitori”.

Il pericolo, inoltre, potrebbe anche arrivare dalla Cina: “pochi tra coloro che sono corsi ad acquistare azioni cinesi hanno riflettuto sui rischi politici che queste aziende corrono a causa della delicatezza dei loro contenuti. Potrebbe bastare un giro di vite su un’azienda o uno scandalo finanziario a spaventare gli investitori”.

 

E se proprio la bolla dovesse scoppiare? Con un po’ di fortuna, le conseguenze potrebbero essere meno disastrose che negli anni ’90, quando l’euforia per internet generò una drammatica inflazione nel prezzo delle aziende tlc che stavano realizzando le infrastrutture per il web. Nel momento in cui crollarono le società internet, quindi, anche le telecom soffrirono non poco. Finora, invece, non sembrano esserci i segni di questo ‘effetto ricaduta’, ma la globalizzazione dell’industria internet potrebbe spingere molti a dilettarsi sui mercati azionari, aumentando l’effetto bolla.

“Alcuni – conclude The Economist – scommettono che stavolta le start up pagheranno, ma gli investitori dovranno fare molta attenzione quando decideranno di scommettere su un’azienda: non potranno fare affidamento solo sul fatto che qualcun altro pagherà più tardi”.

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