Social network: nel mirino della Sec la compravendita delle azioni di Facebook e Twitter sui mercati secondari

di Raffaella Natale |

Secondo l’Autorità americana di Borsa, siti come SecondMarket e SharesPost avrebbero tutto l’interesse a gonfiare i prezzi per guadagnare di più.

Stati Uniti


Sec

L’Autorità Usa di Borsa (Securities and Exchange Commission) starebbe indagando su eventuali conflitti di interesse che potrebbero insorgere nella compravendita di titoli di società non quotate, ma in rapida espansione come Facebook e Twitter. A rivelarlo è il Wall Street Journal.

Le contrattazioni sui cosiddetti “mercati secondari”, per esempio SecondMarket e SharesPost, in cui i dipendenti rivendono le loro azioni agli investitori più intraprendenti, sono infatti ormai considerati la vera Borsa per il settore hi-tech.

Queste piazze online offrono piattaforme di trading private per questi titoli not public e la volontà di molti dipendenti delle aziende di monetizzare garantisce un flow azionario pressoché infinito.

 

La SEC è interessata anche perché se il numero degli azionisti di queste società superasse i 499 soci, secondo la legge americana del 1964, sarebbero costrette all’Ipo.

Al momento, quindi, senza l’obbligo di rendere pubblici i bilanci, è un po’ difficile per chi vuole comprare capire se ne valga veramente la pena.

I mercati secondari guadagnano una piccola percentuale dalle vendite di queste azioni, sorge pertanto il legittimo dubbio che possano avere tutto l’interesse a gonfiare i prezzi.

Un portavoce di SecondMarket ha negato che la società abbia un ruolo nelle transazioni ma che sia solo un “marketplace obiettivo”: le valutazioni vengono fissate sulla base di un prezzo negoziato privatamente tra proprietari di azioni e potenziali acquirenti.

Questo mercato secondario ha però fatto la fortuna dei dipendenti Facebook che qui hanno rivenduto le proprie azioni incassando laute plusvalenze.

 

SecondMarket è regolamentato dalla SEC come “broker-dealer”. Questo significa, tra le altre cose, che tutti i suoi investitori devono essere accreditati (ovvero soddisfare un requisito minimo di reddito) e le offerte sono soggette ai controlli della SEC. Altri mercati come SharesPost non sono regolamentati allo stesso modo. Ma la SEC, secondo il Wall Street Journal, sta pensando anche a questo.

 

Già da tempo la SEC si sta interessato alle contrattazioni private, specie da quando lo scorso anno Goldman Sachs ha investito 500 milioni di dollari in Facebook per poi creare una “società veicolo” consentendo ai suoi clienti di investire indirettamente nel sito di social networking. Dopo che la SEC ha aperto l’indagine, la banca d’affari ha escluso i suoi clienti statunitensi da questa opzione.

 

Lo scorso mese Goldman Sachs, in un lunch riservato, ha presentato i conti dei primi 9 mesi del 2010 di Facebook – 1,2 miliardi di fatturato e 355 milioni di utile netto – e ha lasciato di fatto trapelare che non solo tra gli utenti ma anche tra gli investitori privati c’è un forte interesse per il social network. La quota 499 sarebbe di fatto superata. La società avrebbe quindi 4 mesi di tempo per quotarsi dopo la chiusura dell’anno fiscale in cui la quota viene scavallata. A conti fatti, Facebook dovrebbe sbarcare a Wall Street entro l’aprile 2012.

Non a caso Facebook, spaventata dall’ipotesi di dover spalancare i propri libri, ha posto adesso il veto alla vendita di azioni da parte dei propri dipendenti sul mercato secondario e inoltrato una nuova regola in base alla quale le azioni offerte ai nuovi dipendenti avranno valore solo se l’azienda sarà venduta o quotata in Borsa.

 

Ma c’è il reale interesse a quotarsi? Secondo il blogger di Reuters, Felix Salmon, questa argomentazione non tiene conto di alcuni fattori, come ad esempio la personalità del fondatore e Mark Zuckerberg.

“Ha sempre voluto essere il Ceo della sua società e non ha alcuna intenzione di rinunciarvi“,  ha commentato Salmon secondo cui “chiunque debba rispondere a una larga platea di azionisti deve prendere in considerazione l’ipotesi di essere sfiduciato. Senza contare poi la pressione che si ritroverebbe a gestire una società valutata 50 miliardi di dollari. Il lavoro di Ceo di una società quotata impone un certo grado di esposizione. Bisogna coltivare relazioni con analisti e giornalisti”. Insomma il fatto che debba essere costretta a pubblicare i conti non significa per forza che per Facebook l’Ipo sia una strada obbligata.