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Stampa e web: dominio digitale tra concentrazione, specializzazione, qualità e pubblicità

Italia


Pubblichiamo di seguito l’intervento di Giandomenico Celata (Università di Roma) sul dibattito aperto con la lettera di Ferruccio de Bortoli ai giornalisti de ‘Il Corriere della Sera”.

 

 

 

 

Si è svolta recentemente a Ferrara la tre giorni annuale della rivista Internazionale. Una rivista preziosa, unica nel panorama editoriale italiano con una fidelizzazione straordinaria di lettori e abbonati. La tre giorni di Ferrara vede ogni anno una partecipazione incredibile di persone, in gran parte giovani. Le piazze e le sale dove si svolgono i dibattiti vedono un affollamento completo con gente che assiste in piedi alle discussioni che si svolgono sul palco e che interviene con domande e suggestioni. E’ un po’ un’altra Italia rispetto a quella che ci presentano quotidianamente i giornali e i talk show televisivi.

Il 2 ottobre Reichnstein uno dei più giovani ed interessanti Information Designer, Luca Sofri direttore de il Post, il secondo quotidiano italiano all digital dopo Blitz, e Mauro De Luca, direttore di Internazionale, hanno parlato delle frontiere digitali dell’editoria a stampa. I temi che hanno proposto sono stati molto interessanti, ma sono anche apparsi un po’ arretrati rispetto alla vera e proprio emergenza digitale rispetto alla quale si trova l’industria dei quotidiani.

Perfino sfasati rispetto a quel vero e proprio atto di accusa che è avvenuto in questi giorni da parte di Ferruccio de Bortoli, direttore de ‘Il Corriere della Sera’, verso una parte, non so se maggioritaria ma certamente decisiva, della professione giornalistica. In proposito si potrebbe riprendere ciò che Russel Crowe disse alla sua direttrice di giornale nel film “State of Play” che gli contrapponeva la giovane giornalista dell’edizione online: “lo so perchè preferisci lei a me: perchè io sono grasso, scrivo lentamente e costo troppo”. Ovviamente ogni riferimento alla situazione italiana è puramente casuale, e inappropriato. Per essa vale in ogni caso l’intervista che Marco Benedetto rilasciò quando fu costretto ad abbandonare il gruppo Espresso-La Repubblica.

Che suggestioni ci danno l’incontro di Ferrara, la case history esemplare della rivista Internazionale che fa il paio, anche se in termini molto diversi, con quella de il Fatto Quotidiano, il recente meeting di Condenast, oltre ciò che accade negli Stati Uniti per quanto riguarda la sua editoria e per il successo della versione digitale del Guardian inglese negli USA e di quella del Wall Street journal nel mondo?

La prima riguarda l’inesorabilità del passaggio al digitale dell’attuale editoria già nelle condizioni odierne e ancor più quando all’informazione si affacceranno generazioni che hanno imparato a leggere sugli schermi dei computer, piuttosto che degli smartphone. Certo le nuove tecnologie non uccidono mai quelle preesistenti, anche perchè alcune modalità di consumo giocheranno a favore della stampa, ma inesorabilmente il baricentro informativo e delle revenue si sposterà verso il digitale. L’overlapping tra baricentro digitale e costi dell’attuale edizione a stampa (giornalistici e non, e quelli relativi alla resistenza al nuovo) crea diseconomie di scala e feedback negativi nelle esternalità di rete che appesantiscono i conti aziendali. Innovazione che in ogni caso potrebbe riguardare anche la distribuzione digitale presso le edicole. Terreno su cui stranamente non c’è attenzione.

La seconda suggestione riguarda l’inesorabilità della concentrazione editoriale nel passaggio al web. Ciò che sta accadendo su internet per quanto riguarda i motori di ricerca e i web hosting indica un tracciato che riguarda anche l’editoria. Però, come è avvenuto per le monarchie assolute che erano temperate dal regicidio, la storia recentissima di Internet ci insegna che una straordinaria capacità di innovazione nelle tecnologie e di interpretazione dei bisogni del consumo-utenza ha dato luogo a cambiamenti radicali nei player in gioco anche in brevi archi di tempo.

Così come le caratteristiche di Internet porteranno in definitiva ad una sistemazione asimmetrica del mercato: da un alto i Moloch che vinceranno contro i loro simili la disfida digitale; dall’altro la Venezia del Citizen Journalism e della blogosfera, con riferimento alla Repubblica Veneta del ‘600 che divenne un grande centro editoriale dove si stampava ciò che gli assolutismi vietavano in patria. Libri che poi contrabbandava attraverso i pirati della libertà di stampa. Ma questa Venezia, per altro verso, sarà la linfa vitale degli stessi Moloch come accadde a suo tempo per l’Illuminismo. Oppure, per venire a tempi più recenti, si stabilirà lo stesso rapporto che c’è nel cinema tra le major hollywoodiane e le indie.

La terza suggestione riguarda i probabili fattori di successo sul web. Il primo riguarda la qualità, non nei termini stereotipati con cui si parla di questo aspetto, cioè quella qualità che una qualche cattedra, circolo Pickwick o congrega di illuminati o benpensanti, considera tale. Bisogna piuttosto far riferimento al sistema di total quality management nel quale si intrecciano la soddisfazione dei clienti, la capacità d’innovazione tecnologica, organizzativa e di prodotto e la capacità di conseguire risultati economico-finanziari positivi. Qualità che rimane tale sia che si riferisca a pubblici up-market, oppure down-market.

Il secondo fattore di successo è la specializzazione, intesa come capacità di raggiungere interessi ben definiti professionali o amatoriali. Ma intesa anche come capacità di interpretare i diversi identity commons, politici, sociali e civili, che segnano trasversalmente, rispetto al reddito, all’anagrafe e al livello socio-culturale, le opinioni pubbliche moderne. Anche qui l’Internet che conosciamo ci indica alcuni tracciati: i social network che ricostruiscono le piazze e lo struscio che le attraversava; i fandom che si costruiscono attorno a forum o a siti internet che raccolgono community online; il coinvolgimento e la partecipazione che il sistema permette per DNA proprio.

La quarta suggestione riguarda le fonti dei ricavi ed in particolare la quota parte che deriva dalla pubblicità. Secondo uno schema grossolano i ricavi dei giornali politici sono coperti dal 10 al 20% dalla pubblicità, gli altri quotidiani dal 40 al 50%, le riviste superano il 50%. Senza urtare le suscettibilità di alcuno si può presumere che esista un trade off tra investimento pubblicitario e autonomia redazionale. Maggiore, minore, a corrente alternata o inesistente secondo i casi. Il web, togliendo dalla colonna dei costi quelli relativi alla carta, alla stampa, alla distribuzione, nonchè al ritiro, stoccaggio e smaltimento delle rese, cambia le fondamenta del ROI (Return on investiment) e del ROS (return on sale). Anche il Web ha i suoi costi: dalla manutenzione e implementazione della piattaforma e dei server all’energia per il loro condizionamento. Ma sono costi incomparabilmente minori dell’edizione stampa.

Questa situazione può cambiare sostanzialmente il rapporto di dipendenza del giornalismo dall’investimento pubblicitario. E apre ovviamente la vexata quaestio del pagamento su Internet e sulla propensione a pagare da parte del pubblico. Si può affermare, sulla base di dati e osservazioni, ormai acquisiti, che riguardano alcuni giornali, ma anche la musica e l’audiovisivo, che c’è una disponibilità al pagamento a fronte di un’offerta qualitativa, nei termini di TQM e a prezzi socialmente accettabili. Prezzi che non sono tali se debbono ripianare anche i costi dell’edizione a stampa.

 

La lettera di Ferruccio de Bortoli

L’intervento di Raffaele Barberio

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