Privacy: e se a ‘googlarti’ fosse il tuo medico? La pratica è sempre più diffusa e dagli Usa arrivano le guidelines per evitare abusi

di Alessandra Talarico |

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L’abitudine di cercare su internet informazioni su una persona appena conosciuta (in gergo googlare) è ormai diventata una prassi comune, soprattutto tra i datori di lavoro che vogliono saperne di più su un futuro dipendente. Ma desta un po’ di preoccupazione il fatto che, secondo uno studio pubblicato sull’ultimo numero dell’Harvard Review of Psychiatry, la pratica sia sempre più diffusa anche tra i medici, soprattutto tra gli psichiatri.

 

In alcuni casi, quello che gli autori dello studio chiamano “patient-targeted Googling” (PTG) porta chiaramente dei benefici al medico, per esempio nel caso in cui un paziente posti su un blog riferimenti ad idee suicide o quando una persona arriva al pronto soccorso senza riuscire a fornire elementi identificativi. Ma in altri casi, ammoniscono gli studiosi, la motivazione della ricerca potrebbe essere semplicemente motivata da “curiosità, voyeurismo o abitudine”.

 

Secondo uno degli autori dello studio, David Brendel, “…la maggior parte dei pazienti sarebbe shoccata dal fatto che il loro medico abbia tempo o interesse da dedicare a ricerche di questo tipo”. Molte persone potrebbero avere piacere nello scoprire che il medico pensa a loro al di là della mezzora di terapia, ma molti altri potrebbero ritenere questa azione come lesiva della privacy.

 

Il Dr Brendel ha affermato di non avere a disposizione dati certi per quantificare il numero di medici che abitualmente ‘googla’ i pazienti, ma di aver avuto modo di discutere approfonditamente l’argomento con molti colleghi psichiatri.

Vita la relazione a lungo termine che psichiatri e psicologi stringono coi loro assistiti, è naturale che queste due categorie siano più inclini a cercare online informazioni sui pazienti.

 

Nel documento, quindi, Brendel e i colleghi Benjamin Silverman e Brian Clinton hanno stilato una sorta di prontuario a cui i medici – gli psichiatri, in particolare – possono fare riferimento per decidere se sia o meno il caso di condurre una ricerca sui pazienti attraverso internet.

 

Il team di medici raccomanda ai colleghi psichiatri, innanzitutto di avere ben chiare in mente le reali motivazioni della ricerca e gli effetti che questa potrebbe avere in termini di valore e di rischio per il trattamento medico e per il rapporto medico-paziente.

I dottori, dicono, dovrebbero considerare anche l’eventualità di chiedere il consenso prima di effettuare una ricerca personale: “Lo psichiatra – ha affermato Brendel – è obbligato ad agire nel pieno rispetto del paziente e della deontologia professionale”.

 

Se, poi, dalla ricerca online dovessero emergere informazioni compromettenti – tipo l’uso di droghe o alcool nel corso di una terapia farmacologica – il medico si troverebbe di fronte alla scelta se inserire o meno queste informazioni nella cartella del paziente, mettendo a rischio il rapporto di quest’ultimo con l’assicurazione.

 

Attualmente, non esistono linee guida etiche per i medici. Alcuni sono nettamente contrari al PTG, considerandolo una violazione della privacy, ma molti altri ritengono debba essere fatto come una questione di routine, trattandosi comunque di informazioni pubbliche e potenzialmente rilevanti dal punto di vista clinico.

 

Il documento può dunque essere considerato un modello pragmatico focalizzato sui risultati pratici delle ricerche e in grado di minimizzare il rischio di sfruttamento dei pazienti.

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