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Censura e diritti umani: continua il botta e risposta tra Cina e Usa. Il governo di Pechino, ‘Google benvenuto purché rispetti le nostre leggi’

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Google è il “benvenuto” in Cina, purché rispetti le leggi vigenti nel paese, ed è altrettanto libero di lasciare il paese se lo ritenesse opportuno. È questo il parere del ministro dell’industria cinese Li Yizhong, secondo cui sarebbe “scortese e irresponsabile” per una società straniera contravvenire alla legge cinese, che prevede la censura dei contenuti internet ritenuti pericolosi per il paese.

Ieri, il Ceo Eric Schmidt ha annunciato che ci saranno presto novità circa le trattative tra Google e il governo cinese: secondo il Wall Street Journal, la società americana starebbe studiando un modo che le consentirebbe di sbloccare i filtri ai contenuti senza ritirarsi completamente dal mercato cinese. La soluzione consisterebbe, secondo fonti citate dal quotidiano americano, nella stipula di accordi individuali tra la società e alcuni ministri, che darebbero vita a un mosaico di accordi attraverso il paese.

 

Google è consapevole del fatto che implementare un motore di ricerca senza filtri potrebbe implicare la chiusura delle attività di Google.cn, che controlla il 35,6% del mercato in termini di revenues, contro il 58,4% di Baidu.

La società ha 700 dipendenti in Cina: la cautela nelle trattative con Pechino è dunque d’obbligo anche per salvaguardare l’occupazione, mentre c’è chi sostiene che sia preferibile, prima di decidere se lasciare il paese, aspettare fino al 2012, quando saranno eletti nuovi leader, magari meglio disposti dell’attuale regime a rispettare la libertà di espressione.

 

Anche se i dirigenti di Google hanno affermato che la loro decisione non sarà in alcun modo influenzata dal governo americano, il botta e risposta tra Pechino e Washington sulla questione del rispetto dei diritti umani – anche a mezzo internet – non sembra avere tregua: nel suo rapporto annuale, il dipartimento di Stato Usa ha denunciato il deterioramento della situazione in Iran e Cina: quest’ultima è accusata non solo di abusi sulle minoranze musulmane e tibetane, ma anche di aver continuato nei suoi tentativi di controllare internet e i suoi utenti.

Il rapporto stigmatizza, in particolare, l’impiego di migliaia di persone per il controllo estensivo del web e delle comunicazioni elettroniche.

 

Immediata la reazione di Pechino, che controbatte accusando Washington di usare i diritti umani “come strumento politico per interferire negli affari interni degli altri paesi, diffamare l’immagine delle altre nazioni e perseguire i propri interessi strategici”.

La Cina accusa quindi gli Usa di essere responsabili della crisi finanziaria ed economica globale.

“E’ veramente un peccato – si legge – che gli Stati Uniti continuino ad accusare gli altri paesi in un momento in cui il mondo sta soffrendo per un grave disastro per i diritti umani provocato dalla crisi dei mutui subprime prodotta dagli Usa”.

 

E di accuse, gli Stati Uniti, ne rivolgono, anche se in maniera più velata, pure all’Italia, in riferimento alla condanna degli ex dirigenti Google per l’ormai tristemente noto filmato di violenze ai danni di un ragazzo disabile.

“Una minoranza di utenti che abusa della libertà e dell’anonimato sul Web non deve diventare pretesto per i governi per emanare leggi che limitano l’accesso ad internet, o per imporre oneri irragionevoli su coloro che forniscono un mezzo attraverso il quale tutti comunichiamo”, ha affermato l’ambasciatore americano David Thorne, secondo cui la difesa “…del principio delle libertà di internet”, fino all’esportazione della libertà via internet, “è cruciale”.

 

Thorne è tornato a difendere Google dopo che già all’indomani della sentenza aveva espresso il disappunto dell’amministrazione americana: “…la priorità degli Usa – ha detto – non è affermare il controllo del governo sulla rete, ma garantire la libertà”, cosa che si può fare in maniera migliore attraverso la mobilitazione degli utenti internet e delle aziende, più che ricorrendo a una “regolamentazione governativa che limita il libero flusso di idee e informazioni”.

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