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Speciale Decreto Romani: il viceministro interviene per ribadire, ‘Le nuove norme rispettano la Direttiva Ue sui servizi audiovisivi’

Italia


Dopo aver visto scomparire dalle dichiarazioni dei rappresentanti dell’opposizione l’assurda eccezione di un vizio di delega che avrebbe consentito di legiferare solo sul product placement, mi vedo nuovamente costretto a ritornare sullo schema di decreto legislativo di recepimento della direttiva 2007/65/CE sui servizi audiovisivi, all’esame di Camera e Senato per i pareri di competenza.

Tralasciando le offensive dichiarazioni sull'”umiliazione” del Parlamento sottratto alle sue funzioni nel contesto di un provvedimento di recepimento di norme comunitarie che prevede ben definite procedure di formalizzazione ai sensi di legge, vengo questa volta a rispondere ai quattro punti “critici” evidenziati nell’odierna conferenza stampa di alcuni esponenti dell’opposizione.

Partendo dalle contestazioni, peraltro molto stridenti, alle norme in materia di produzione audiovisiva, ci tengo a sottolineare che, nella sostanza siamo andati oltre quello che prevede la direttiva, garantendo un sistema più remunerativo per le imprese operanti nel settore.

Sulla produzione europea indipendente la direttiva attribuisce opzionalmente all’emittente la possibilità di scegliere la riserva del 10% tra obbligo di programmazione e obbligo d’investimento. Abbiamo invece previsto come obbligatorio solo tale ultimo impegno, garantendo al settore un flusso rilevante di risorse che, rispettando alla lettera la facoltà opzionale prevista dalle norme comunitarie, sarebbero altrimenti scomparse. Sottolineo peraltro che gli introiti su cui calcolare la quota obbligatoria di investimento sono da riferibili alla quasi totalità dei ricavi delle emittenti, secondo quanto già previsto dal Testo unico.

 

Quanto alle riconosciute e non scomparse sottoquote in favore della produzione cinematografica italiana, piuttosto che a una loro predeterminazione inapplicata e inapplicabile abbiamo preferito demandare a un successivo regolamento la fissazione delle relative quote percentuali, all’esito di un confronto civile e ragionevole con le parti interessate e tenendo conto dello sviluppo del mercato e della disponibilità effettiva di tali opere.

Senza tralasciare, come novità, il rafforzamento negoziale dei titolari dei diritti e la previsione di disposizioni volte ad agevolare la diffusione di trailer cinematografici.

 

Sui diritti residuali è invece opportuno un ripensamento, magari da concordare con le parti interessate, per riequilibrare una norma che dopo un certo numero di anni trasferisce a produttori in Italia meramente esecutivi la titolarità dei diritti secondari di sfruttamento di prodotti integralmente finanziati da altri e cioè le emittenti.

In ogni caso su tali parti del provvedimento sono ipotizzabili, qualora richiesti interventi oltremodo migliorativi per le imprese di produzione cinematografica e televisiva.

Quanto alle norme in materia pubblicitaria, nel rispetto del principio comunitario che, in un contesto di flessibilità, consente l’introduzione di limiti più restrittivi, è stata prevista una più che legittima riduzione graduale dei tetti di affollamento orario per tutti i canali a pagamento, sia satellitari che terrestri, nel prossimo triennio (16% nel 2010, 14% nel 2011, e, a regime, 12% a decorrere dal 2012). La previsione di un regime differenziato per i canali a pagamento si inserisce a pieno titolo nel contesto di un sistema attualmente tripartito dei tetti di affollamento: la Rai infatti ha un limite del 12% orario e del 4% settimanale, le emittenti nazionali in chiaro del 18% orario e del 15% giornaliero e le tv locali del 25% orario e giornaliero che può arrivare fino al 40% se comprende forme di pubblicità diverse dagli spot.

 

Una tale riduzione è, nella sostanza, finalizzata a garantire il consumatore-utente della pay tv. L’introduzione di limiti più severi è infatti una misura che consente di limitare il disvalore dovuto all’interruzione pubblicitaria, percepita come tale durante il processo di consumo da parte dell’utente, nel corso di un programma per il quale (e a differenza della televisione in chiaro) l’utente ha versato un apposito compenso (generalmente sotto forma di abbonamento) al fornitore del servizio per la fruizione di un contenuto c.d. premium a più alto valore aggiunto. Tale principio è peraltro sostenuto dalla autorità antitrust e da quella di settore in propri provvedimenti. Una limitazione degli affollamenti della pay tv nei limiti indicati è stata peraltro richiesta dalla FIEG, l’associazione degli editori della carta stampata. Altri operatori del mercato televisivo, in primis le associazioni delle emittenti locali e alcune associazioni di consumatori (in particolare quella più attenta alle tematiche televisive, l’Adiconsum) hanno chiesto la totale soppressione della pubblicità dai canali a pagamento, in linea con analoga disposizione prevista in Francia per Canal Plus, evidenziando un’esigenza peraltro comune alla gran parte degli abbonati ai servizi a pagamento.

 

Quanto all’esclusione dal tetto del 20% dei programmi in replica, la nuova disciplina non ha alcun riflesso sul vigente regime antitrust dettato dall’articolo 43 del Testo unico della radiotelevisione, se non sotto il profilo di aver chiarito che, conformemente all’orientamento espresso dalla Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni in merito ad alcune tipologie di contenuti irradiati in tecnica digitale terrestre come, ad es., i programmi in pay-per-view, le trasmissioni meramente ripetitive quali i c.d. canali “+ 1″ (che si limitano cioè a replicare le trasmissioni delle reti madre), e alla stregua di quanto già oggi si verifica per i programmi in pay-per-view, non concorrono alla determinazione del tetto del 20% dei programmi televisivi di cui al citato articolo 43 del Testo unico della radiotelevisione.

 

Concludendo, sulla vicenda del web, materia in cui la disinformazione e la faziosità sembrano farla da padrone, è la stessa direttiva comunitaria a definire un servizio di media televisivo quale un servizio la cui finalità principale è la fornitura di programmi al fine di informare, intrattenere o istruire il grande pubblico attraverso reti di comunicazione elettroniche, e nei quali il contenuto audiovisivo non sia meramente incidentale e ne costituisca invece la finalità principale. Ed è la stessa direttiva, cui il decreto legislativo è perfettamente conforme, a puntualizzare che siano assoggettati alle sue regole, tra gli altri servizi, anche i siti internet purché contengano in misura prevalente elementi audiovisivi non a titolo puramente accessorio, nonché il web-casting, ovvero la trasmissione televisiva su internet.

 

Si precisa inoltre che, contrariamente a quanto pretestuosamente dichiarato, il decreto non intende censurare il diritto di informazione in rete e tantomeno incidere  sulla possibilità di manifestare le proprie idee e opinioni attraverso blog, social network, ecc. da parte degli utenti della rete. Il decreto, peraltro, non si occupa neanche delle versioni elettroniche dei quotidiani o delle riviste.

Tutte queste tipologie di utilizzo della rete non sono soggette ad alcuna forma di autorizzazione, prevista peraltro come semplice dichiarazione di inizio attività per i soggetti che effettivamente, attraverso internet, svolgono nei fatti un’attività assimilabile a quella televisiva.

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