Democrazia, Creatività, Saperi tecnologici: la lezione di Adriano Olivetti

di di Sergio Ristuccia |

Italia


Sergio Ristuccia

Pubblichiamo l’epilogo del libro Costruire le istituzioni della democrazia – La lezione di Adriano Olivetti, politico e teorico della politica, pubblicato da Sergio Ristuccia per i Saggi Marsilio, Marsilio, Venezia 2009, 463 pagine.  

Ringraziamo la casa editrice Marsilio.

 

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È il 1955. Parlando ai dipendenti della Società, Adriano Olivetti dà notizia, con sobrietà e senza particolare enfasi, che nel campo della ricerca, alla frontiera delle nuove tecnologie elettroniche, l’Olivetti è in posizione avanzatissima e che anzi è alla pari degli americani.

L’ho già ricordato.

 

La storia dei calcolatori Elea è la grande conferma di quanto l’Olivetti fosse sulla frontiera più avanzata della ricerca. Dopo l’annuncio del 1955, viene costruito e presentato, nel 1959, il primo calcolatore integralmente progettato in Italia: l’Elea 9003. Costato dieci anni di studi e sperimentazioni, si dimostra un hardware di avanguardia. Subito dopo, viene lanciato l’Elea 9001, di minori dimensioni, destinato ad un più ampio uso. Contemporaneamente, la vicenda dell’Elea è la dimostrazione – sulla base di un modesto esercizio controfattuale – di quanto diversi sarebbero stati lo slancio di quella impresa di avanguardia e il suo successo, se non fosse venuta meno la guida di Adriano.

 

Facciamo un salto di qualche decennio. Alla fine del Novecento e nel primo decennio del terzo millennio, abbiamo vissuto e stiamo vivendo la straordinaria, impetuosa affermazione di Internet che ancora nei primi anni novanta era una rete usata prevalentemente nel mondo scientifico. Internet è entrata nella vita di tutti i giorni per

una gran parte della popolazione; anzi, la soglia fra l’uso e il non uso della rete costituisce un parametro per valutare quel digital divide che ha instaurato una nuova frattura sociale di cui tenere conto ed essere preoccupati.

 

Proviamo ora a mettere insieme i due modi di pensare ad Adriano Olivetti che si sono andati affermando: il grande imprenditore, morto prematuramente prima che la sua opera si consolidasse pienamente; e il politico che, per essere un riformista rigoroso ma inascoltato dai riformisti di cultura tradizionale, apparve velleitario ed utopista. Nel mettere insieme questi due modi di pensare, che poi significa mettere insieme ed in connessione quelle che, se vogliamo, sono le due anime dell’uomo Olivetti, troviamo in realtà il cuore, il significato profondo della sua lezione politica. Per oggi e per domani.

 

Prendiamo in considerazione, fra le caratteristiche di Olivetti imprenditore, la sua attenzione ad essere sulla frontiera del progresso tecnologico. Egli mise molta cura nell’organizzazione aziendale secondo un modello di tipo fordista di cui colse la necessità per costruire un’industria che volesse fare produzione di massa uscendo da un consolidato modo di fare industria in Italia che era poco più che artigianale, volto alla ricerca di macchine o prodotti nuovi, ma storicamente incapace di andare oltre la messa a punto dei prototipi, per arrivare alla produzione in serie di quelli riusciti. Fu una cura meticolosa dell’organizzazione che lo occupò a fondo, cui si era a lungo preparato per lo stimolo costante del padre Camillo. È così che quella trasformazione della «fabbrica» in grande industria viene realizzata con un modello fordista profondamente integrato dal padre con lo spirito di «grandissima umanità». Così lo stesso Olivetti descrisse quel processo di trasformazione nel discorso che fece ai dipendenti nel giugno 1945:

 

Fra il 1928 e il 1934, la fabbrica subisce una lunga crisi interna. È una trasformazione totale dei sistemi direttivi. La fabbrica aveva raggiunto, prima di quei tempi, un alto equilibrio umano. Erano i tempi di mio Padre e di Domenico Burzio, un binomio per me inscindibile. Io allora ero molto giovane e non avevo capito di loro che una parte. Vi era una realtà nel loro esempio, nel loro modo di affrontare i problemi della fabbrica, che sfuggiva a un esame razionale, a un esame unitario, a un esame che volesse confrontare le cose col metro dei raffronti, che volesse paragonare le cose soltanto dai risultati. Questo qualcosa, l’ho detto, era invisibile ed era la loro grandissima umanità, per cui nella loro superiorità, quando discutevano o esaminavano il regime di vita o il regime di fabbrica, ciascun lavoratore era pari a loro, era un uomo di fronte a un uomo. Ma allora la fabbrica aveva 600 operai. Il regime dell’economia, il regime dei mercati, il regime di concorrenza esigevano un rinnovamento, esigevano di incamminarci su una strada nuova, verso l’idea di una grande fabbrica. C’era al di là dell’Atlantico il modello, c’era una spinta quasi inesorabile ad andare verso un nuovo stato di cose più grande, più efficiente, dove molti più lavoratori avrebbero trovato ragione di esistenza. Ma mio Padre esitava, esitava perché – e me lo disse per lunghi anni e per lunghi momenti – perché la grande fabbrica avrebbe distrutto l’Uomo, avrebbe distrutto una possibilità di contatti umani, avrebbe portato a considerare tutto l’ingranaggio umano come un ingranaggio meccanico. Ogni uomo come un numero. Ma il cammino aperto si dispiegò ugualmente. La fabbrica aveva la sua logica e questa

logica si sviluppò inesorabilmente. Nel 1934 gli operai salgono a 1.200, nel 1937 a 2.000, nel 1940 a 3.000. La macchina scientifica si era messa in moto, gli uffici tecnici si ingrandivano, nuovi prodotti erano studiati, erano messi in produzione, erano venduti. Ogni anno gli architetti studiavano degli ingrandimenti. C’era qualche cosa di bello in questo, c’era un certo orgoglio nel vedere dalla vecchia fabbrica di mattoni rossi uscire queste grandi vetrate moderne. E a poco a poco delinearsi la fabbrica come è attualmente.

 

«La macchina scientifica» dice Olivetti: quella che egli aveva messo in moto. Risulta chiaro da questa vibrante ricostruzione che alla teoria e alla pratica dell’organizzazione aziendale Adriano aggiunse molto di suo. Avendo come punti di riferimento la qualità del prodotto – anche sul piano estetico – e la creazione di una forte cultura aziendale volta ad ogni possibile miglioramento di efficienza e qualità.

 

Della cura del dettaglio che Olivetti ebbe nella sua attività di imprenditore e capo azienda troviamo ampia testimonianza nella sua dichiarata e, direi, predicata cura dei particolari nel disegno istituzionale di cui in questo libro mi sono occupato. Eppure non è certo questo il punto cruciale. L’apporto fondamentale è nella visione della centralità

del progresso tecnico nel mondo contemporaneo. Ne deriva, come imprenditore, la convinzione che fare impresa significa partecipare direttamente, come interprete attivo, al progresso tecnologico. Ne deriva, per la politica, la necessità di far fruttare tale progresso per il bene comune, dunque per essere all’altezza dei problemi che il progresso stesso pone alla società. Nessuna ombra di sospetto verso scienza e tecnologia come fonte quasi inevitabile di mali sociali, come spesso si coglie nei discorsi di sponda conservatrice, populista e larvatamente reazionaria, o di sinistra luddista. Ovvero, come avviene nel clima di superficiale indifferenza che coinvolge anche le aree cosiddette riformiste. C’è piuttosto consapevolezza piena che le potenzialità del progresso scientifico e tecnico vanno colte, assecondate, indirizzate, cioè governate. Di qui, l’insistenza forte per un sistema di istituzioni democratiche diverso da quello ereditato dallo Stato prefascista. Uno degli argomenti principali di critica verso le istituzioni della vecchia democrazia parlamentare è, in Olivetti, proprio questo: non essere in grado di tenere un rapporto adeguato e vivace con il mondo della scienza e della tecnica. Nella democrazia delle comunità si accresce l’apporto della cultura, si aprono e diffondono canali di conoscenza, viene favorito il confronto informato fra i politici nell’ambito degli ordini, si amplia la presenza costante dei cittadini.

 

Consideriamo ora il grado di diffusione della Rete attraverso il connubio poderoso di computer science e di information technology: ciò che ai tempi stessi di Olivetti poteva apparire fantascienza è divenuta invece routine del nostro vissuto sociale. Questi sviluppi, che egli non poteva certo prevedere, sono tuttavia dentro la sua visione di centralità del progresso tecnico. La rete non ha creato una genera lizzata new economy, come alla fine del secolo scorso era diventata opinione molto diffusa e frutto di una introduzione affrettata del progresso delle tecnologie digitali nelle logiche di mercato del capitalismo finanziario, all’epoca dilaganti. Ha dovuto cercare integrazioni consistenti con la old economy delle macchine e delle manifatture.

In ogni caso, ha avuto capacità diffusiva eccezionale. Per questo si è creata una rilevante routine innovativa in tanti campi dell’attività umana. Appunto, dal fantascientifico alla consuetudine quotidiana dell’uso di molti nuovi strumenti e delle conoscenze ad essi connesse.

 

Ho provato a indicare le forme di supporto che la Rete può offrire alla crescita della democrazia e alla modificazione profonda delle istituzioni democratiche. Mi pare che si tratti del necessario passaggio dall’ipotesi alla realizzazione che deriva dalla lezione olivettiana. In definitiva, buona parte del disegno istituzionale tracciato da Olivetti per dare sostanza nuova all’idea di democrazia e per inverarla nella pratica può giovarsi delle tecnologie della Rete e di quelle che possono essere studiate e progettate ad hoc. Naturalmente: nessuna scommessa acritica e più o meno fideistica. Piena consapevolezza che, ad ogni passaggio, c’è il rischio della cattura da parte di una forma onnivora di capitalismo asociale, così come ci sono i tanti rischi dell’uso perverso della rete. E nemmeno, d’altra parte, possiamo consentire alcuna anticipazione o assonanza con il refrain stucchevole con cui industriali e politici si richiamano al progresso tecnico come strumento per la «competitività» del «sistema Paese» nei giorni di un declino della società e dell’economia del Paese che né gli uni né gli altri hanno avuto capacità di prevedere e contrastare.

 

Il vero muro da abbattere è la resistenza ad ogni reale creatività nel pensare e costruire le istituzioni della democrazia. C’è, a questo riguardo, da prendere consapevolezza di alcune difficoltà profonde. Nel nostro Paese, certamente, ma in genere in quasi tutti i Paesi a democrazia cosiddetta avanzata. Il dibattito istituzionale ruota sempre intorno a quel complesso di idee e di meccanismi istituzionali che sono andati a costituire la democrazia rappresentativa liberal-democratica.

Molte le varianti e molti i modi di intenderla, rimanendo salda la convinzione di base che quel complesso debba restare sostanzialmente intangibile. Molto si è provato a cambiare attraverso i tentativi di introduzione della democrazia referendaria. Che tuttavia è e viene percepita come prassi, magari frequente, ma occasionale. Ho l’impressione che occorra chiedersi se le fondamentali acquisizioni del Settecento e del suo momento più denso di innovazione storica, la Rivoluzione francese, non abbiano sedimentato un blocco di idee e di istituzioni che, una volta fatti i conti ed integratosi con il pensiero liberale che inizialmente gli si oppose, non sopporta innovazioni, quale l’allargamento della democrazia aldilà della logica rappresentativa nelle sue diverse variazioni, ottocentesche e novecentesche, che in parte mi è capitato di citare nel corso di questo libro.

 

Forse occorre ricordare l’osservazione fulminante di Francois Furet del 1965: «la Révolution enfin est terminée». La «rivoluzione», per tutto quel che significa concettualmente e simbolicamente, è terminata. Perché ha dato tutto il possibile contributo alla storia della democrazia una volta superate le sconvolgenti deviazioni o reazioni totalitarie che ha vissuto il Novecento. Ha lasciato tuttavia aperti i dilemmi delle sue interpretazioni che si muovono fra gli estremi del bonapartismo e del giacobinismo. Forse riconoscere che è terminata una fase di ricerca istituzionale i cui istituti principali, divenuti punti di riferimento, sono stati dettati più di due secoli fa costituisce la premessa indispensabile per convincerci che il cantiere delle istituzioni della democrazia è aperto. Deve essere tenuto aperto con ferma decisione perché attende apporti progettuali fuori dalle coordinate consolidate. La democrazia è un’acquisizione da tenere stretta in ogni caso, anche con i molti difetti che constatiamo quotidianamente. Ma di tali difetti bisogna avere la più lucida consapevolezza insieme ad una profonda insoddisfazione. Non si tratta, infatti, di un’acquisizione da considerare conclusa in tutte le sue potenzialità. Perciò, dobbiamo

superare ogni incredulità sulle possibilità di migliorare la democrazia tradizionale, come quella sottesa al tagliente giudizio di Winston Churchill sulla democrazia come male minore, che è divenuto quasi proverbiale. La democrazia – aveva ragione Rovan – é ancora un’idea nuova.

 

La lezione che ci ha lasciato Adriano Olivetti – lezione di democrazia vera e compiuta, di creatività all’insegna dei valori dello spirito, di uso saggio e fiducioso del sapere tecnologico – rimane fondamentale per realizzare quest’idea nuova.

Nell’immediato dopoguerra questa lezione ispirata dalla visione di una democrazia dove il pieno dispiegamento della libertà si accompagnasse all’affermazione di una società giusta fondata sulla primazia del lavoro risultò inattuale in un’agenda politica bloccata dalla guerra fredda. Una guerra che fu fredda per il continente europeo, ma che causò tuttavia milioni di morti nel mondo. Quando finì la guerra fredda, con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e poco dopo con la fine dell’impero sovietico che aveva a lungo impersonato l’illusione di una società egualitaria tradottasi in duro totalitarismo, parve giungere il momento per riprendere il discorso e l’azione politica per una società democratica adeguata ai tempi, che si fondasse sui principi della libertà e dell’equità sociale. In realtà, s’inaugurò la stagione di un capitalismo ruggente e sfrenato. E profondamente irriflessivo. La dominanza dei capitali finanziari insofferente di regolamentazioni é arrivata a produrre i danni e i rischi ampiamente disseminati che la crisi esplosa nel 2008, ma lungamente incubata, ha fatto emergere clamorosamente. Si sente spesso invocare il ritorno alla Politica, ma sembra uno dei tanti modesti e acritici refrain propri dell’uso mediatico della politica inteso come produzione di battute e controbattute. Si potrebbe anche aderire a questo appello alla Politica, purché ciò significhi innanzitutto un risveglio di pensiero politico forte nell’analisi, multidisciplinare, della società e ricco di intenzionalità progettuali. Un motivo per riandare all’attualità della lezione di Olivetti.

 

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