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Industria dei contenuti e declino nazionale: agrodolce Rai e fiumi di parole dal festival di Venezia

Italia


Ieri a tarda sera, incarnando per un paio di ore il ruolo dei “potato coach” della tradizione americana, ci siamo incollati davanti al monitor tv, ed abbiamo fruito dell’offerta Rai, in un gioco di telecomando limitato a Rai 1, Rai 2 e Rai 3: molto istruttivo. Senza dubbio interessante lo “special” firmato da Giovanni Minoli dedicato alla nuova “soap opera” della italica tv pubblica, “Agrodolce” (una coproduzione Rai Educational, Regione Sicilia, Einstein Fiction): un “dietro le quinte” ed un “promo” al tempo stesso, con appendice di lunga ed un po’ inquietante intervista al Presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo… Ma andiamo con ordine: non dobbiamo stare a spiegare ai lettori di “Key4biz” il carattere oggettivamente innovativo di “Agrodolce”, ma ci ha stimolato – per la scrittura di questo articolo – una affermazione, ai limiti dell’incredibile, di Minoli, nell’autodescrivere narcisisticamente la propria creatura: “ La Sicilia sarà la nuova Hollywood ” (sic). Riconosciamo a Minoli ed alla sua Rai Educational un “mood” di fare televisione certamente più rispondente alla “mission” che Rai dovrebbe incarnare, rispetto a tante altre penose trasmissioni di (dis)servizio pubblico, ma forse questa volta ha esagerato, come autoreferenzialità.

La Sicilia come Hollywood?!

 

Non abbiamo registrato la trasmissione, ma non crediamo che le nostre orecchie o la nostra memoria ci ingannino: ha detto “sarà”. Non “potrebbe essere”, o “forse sarà”. Sarà. Punto. Assertivo. La prima reazione è stata: allora ha proprio ragione un altro “decision maker” della tv italiana, ovvero un’altra prima donna, quell’Aldo Grasso, che, dall’alto del suo tribunale (senza corte di appello), qualche settimana fa aveva sentenziato che la fiction finanziata dallo Stato fosse un po’ una schifezza. Il quesito è semplice: è “cosa buona e giusta” che Rai co-produca una fiction di lunga serialità attingendo a fondi della Regione Sicilia, ovvero a fondi dell’Unione Europea destinati alla Regione Sicilia? La risposta è univoca: è “cosa buona e giusta”, perché verosimilmente questi fondi, se non destinati alla fiction, andrebbero ad attività sulla cui efficacia strategica per lo sviluppo socio-culturale della Sicilia si possono nutrire dubbi. E spesso si tratta di fondi che vengono persi, letteralmente persi, per incapacità a presentare progetti ritenuti validi dalle istituzioni europee. Peraltro, “Agrodolce” si pone come emulazione di “Un posto al sole”, opera che – secondo la Rai – ha stimolato, nel corso di 13 anni, la creazione di oltre 1.700 posti di lavoro, tra autori e tecnici. “Agrodolce” avrebbe già “prodotto” 270 posti di lavoro, e prima di andare in onda.

 

Il problema è altro: come si posiziona questa iniziativa, nel piano editoriale complessivo della Rai, e – sia consentito – all’interno di una (ancora inesistente) strategia globale (pubblico+privato) dell’industria audiovisiva nazionale? Minoli ha scritto una replica a Grasso, pubblicata sul “Corriere” del 6 agosto, e ci limitiamo a qui riportare la controreplica del critico supremo della italica tv: “Caro Minoli, se lei avesse avviato operazioni di lunga serialità paragonabili, che so, a opere come «Ai confini della realtà», «Hill Street giorno e notte», «Six Feet Under», «Lost» o altri telefilm del genere, non avrei nulla da eccepire. Anzi, mi congratulerei per la sua capacità di spillare soldi alla Comunità europea e alla Regione Sicilia, così «sfavorita» da permettersi il lusso di una soap. Ma «Un posto al sole» è un fotoromanzo, nulla più. Compito storico del Servizio pubblico non è soltanto quello di creare posti di lavoro (importanti e spesso decisivi), ma, secondo l’aurea formula di John Reith, di prendersi «la responsabilità di portare nel numero più ampio possibile di case il meglio di ciò che è stato formulato in ogni area della conoscenza umana». Ma che senso ha pagare il canone per storie da portineria? Il rischio è che con operazioni come «Un posto al sole» o «Agrodolce» si formi una doppia cittadinanza televisiva: la tv di bassa qualità (per segnale e contenuti) gratuita e generalista; la tv di alta qualità (per segnale e contenuti) a pagamento e destinata a pochi. Una frattura insomma tra una tv per i «poveri» (o sfavoriti) e una tv per «ricchi», un rischio che in Italia pare sempre più forte. La mia idea è che la Rai dovrebbe rifondare il proprio brand assicurando una tv di qualità, per segnale e contenuti, disponibile a tutti, guidando il pubblico nell’abbondanza di offerte spesso ridondanti, anticipando e favorendo l’ evoluzione tecnologica“. Condividiamo le tesi di Grasso, che vanno ben oltre una semplicistica critica nei confronti del rischio di un novello “assistenzialismo” pubblico all’industria culturale, che pure rappresenta una direzione opposta rispetto a quella filosofia di “policy making” liberal-liberista, che, in ottica “bi-partisan”, sta cercando di mettere in atto il Ministro Bondi, con provvedimenti come il tax shelter ed il tax credit, che vorrebbero liberare lo Stato dallo storico ruolo di “sovvenzionatore” (le cui radici – ricordiamo – si ritrovano nell’architettura del regime culturale fascista).

 

Il quesito è giustappunto quello che pone Grasso: ma è proprio un prodotto come “Agrodolce” a dover caratterizzare un’offerta forte ed innovativa della Rai, uno sforzo produttivo notevole, un impegno budgetario così significativo (anche se al 50 % con la Regione Sicilia )? Per esempio: quanti documentari si potrebbero produrre, con le decine di milioni di euro destinati alla “soap” sicula? O quanta sperimentazione di formati brevi e multipiattaforma (genere nel quale la Rai è totalmente assente)?!

E come si può pensare realisticamente che sulle colline di Termini Imerese si possa costruire qualcosa che possa anche solo lontanamente ricordare Hollywood?!

D’accordo, l’entusiasta Minoli si sarà lasciato prendere dalla retorica, ma quel che spiace osservare è che, ancora una volta, in Italia, la “politica culturale” (in questo caso, la politica mediale, la politica televisiva) è affidata ad iniziative estemporanee, senza che vi sia una progettazione strategica per il “sistema Italia”, un piano di programmazione pluriennale nel quale le risorse dello Stato centrale, delle Regioni, della Rai, e dei “player” privati, vengano analizzate, discusse, utilizzate razionalmente, sinergizzate. Manca, in sostanza, una regia, ed una “cabina di regia” dell’industria audiovisiva nazionale. Manca ancora un sistema certo di norme e regole che stimolino la produzione “made in Italy”: e spiace leggere una auto-difesa debole e fragile, come quella odierna di Sherin Salvetti, Vice Presidente Factual di Fox Channels Italy, la quale, rispondendo ad una vibrante protesta del produttore Nicola Giuliano, scrive una lettera a “l’Unità”, intitolata “Noi di Sky produciamo documentari”. La Salvetti spiega che, negli ultimi 3 anni, Sky ha acquistato 120 ore di documentari italiani, da 30 diversi produttori indipendenti. Basta questo, per capire a che livello siamo: Salvetti non rivela il budget speso, ma si vanta addirittura della… quantità prodotta e messa in onda. Crediamo che il budget che Fox Italy destina ai documentari sia una briciola, a fronte del totale dei ricavi del gruppo Sky Italia, ed attendiamo speranzosi che l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni decida come regolare – ci auguriamo seriamente, sebbene lo scetticismo sia enorme – gli obblighi di investimento della “pay tv” e degli operatori telecom che veicolano prodotti audiovisivi, così come introdotti nella recente Finanziaria…

 

Da Venezia, infine, polemiche scatenate dal produttore Pietro Valsecchi (boss della Taodue, destinata ad essere fusa nella “newco” Mediaset che dovrebbe vedere assieme Endemol e Medusa), che invita i giovani a “scaricare tutto” dal web, liberamente e senza scrupoli, insorgendo contro la “retorica dell’antipirateria” (anche su questo argomento, c’è stato un convegno in tono minore al Lido, con annunciate presenze di Bondi e Letta e Masi, che non si sono presentati). L’argomento è complesso e delicato, e ci torneremo con grande attenzione. Così come affronteremo, nei prossimi giorni, un’altra questione, importante e scabrosa, alla quale non ha ancora dedicato attenzione quasi nessuno in Italia: a fine agosto, il Governo ha approvato la cosiddetta “Legge Comunitaria” per il 2008, ovvero un disegno di legge per l’adempimento degli obblighi che derivano dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea, legge che – come ogni anno – elenca le direttive a cui dare recepimento, e fissa i criteri generali della delega legislativa che sarà esercitata dai Ministri competenti per materia: all’articolo 17, c’è la questione del delicato recepimento della nuova Direttiva “Audiovisual Media Services”, che va a sostituire la storica “Tv Senza Frontiere”. Si tratta, più esattamente, della Direttiva 2007/65/Ce, concernente l’esercizio delle attività televisive, che prevede rilevanti modifiche al “Testo Unico della radiotelevisione”. Tra le varie delicate questioni, i tetti di affollamento pubblicitario e l’introduzione del “product placement” nella fiction televisiva (e Galli della Loggia andrà a sentenziare che, con questa “implementazione”, la fiction italiana peggiorerà ancor più il suo già non eccelso livello)…

 

La Rai sta seguendo male, in modo disorganico, la kermesse veneziana: lo ha scritto a chiare lettere Marco Molendini, su “Il Messaggero” del 1° settembre: “l’effetto finale è quello dello spezzatino, frutto di una presenza felpata e senza rischi, a conferma della curiosa diffidenza della tv pubblica a proposito delle cose cinematografiche veneziane”. Ed a parte le giuste critiche al “low profile” della Rai a Venezia – atteggiamento che è sintomatico di un errato rapporto della tv pubblica rispetto al cinema italiano (non basta l’impegno di Rai Cinema) -, sui giornali, con l’eccezione di alcune testate compiacenti, emergono critiche ormai pesanti nei confronti della Mostra. “il Giornale” intitola in prima pagina, oggi, “Il festival? La festa della noia”. L’occhiello è sintomatico: “Anno dopo anno, i soliti scrittori, i soliti attori, i soliti filosofi. Le ‘attesissime kermesse’ sono soltanto una fiera della vanità. Il pubblico, abbacinato dalle star, arriva con la voglia di capire e di apprendere. E se ne va con un inquietante senso di déjà-vu”, scrive caustico Luigi Mascheroni. E Claudio Plazzotta scrive, su una testata equilibrata come “Italia Oggi”, a piena pagina: “Cinema, Venezia spiazza i giornali. Fiumi di inchiostro sui divi italiani, ma poco spazio alle novità”.

 

Ancora una volta, “fiumi di parole”, come cantavano gli indimenticati Jalisse…

E le stelle restano a guardare.

 

 

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Angelo Zaccone Teodosi, Presidente di IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale

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