Roma Fiction Fest: industria e Autorità a confronto sulla Direttiva Ue ‘Audiovisual media services’

di di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale) |

Italia


Angelo Zaccone Teodosi

Se ieri scrivevamo su queste colonne che l’avvio del Roma Fiction Fest appariva piuttosto lento e registrava qualche deficit organizzativo, oggi accantoniamo gli “eventi” televisivi (citiamo solo che quello del giorno è la proiezione di “Elisabeth I”, interpretata da Helen Mirren – attrice vincitrice dell’Oscar per “The Queen” – e da Jeremy Irons, serie diretta da Tom Hopper) e vogliamo dare atto di un’eccellente iniziativa promossa nel contesto della kermesse, con un “panel” di notevole livello. Sostanzialmente promosso dall’europarlamentare Gianni De Michelis (iscritto al gruppo socialista del Parlamento Europeo), con la sua assistente Gabriella Cims (titolare della cimsComunicazioni), il confronto sulla Direttiva Europea “Audiovisual Media Services” (da cui l’acronimo “Avms”, per gli adepti) è stata una delle prime occasioni italiane di analisi della situazione del recepimento della Direttiva che è andata a novellare la pre-esistente Direttiva famosa come “Tv Senza Frontiere” (la cui prima versione risale al 1989).

Il 29 novembre 2007 la Direttiva è stata approvata dal Parlamento Europeo in seconda lettura, in sessione plenaria. Il 18 dicembre 2007 è stata pubblicata sulla italica Gazzetta Ufficiale ed è in vigore dal 19 dicembre 2007. Deve essere recepita nelle normative nazionali entro il termine ultimo del 19 dicembre 2009. In Italia, si attende che sia la Legge Comunitaria in gestazione a introdurre – a breve – la nuova normativa.

 

Da segnalare che, su questo specifico argomento, si tratta della seconda iniziativa promossa da De Michelis che, del provvedimento, è stato relatore per la Commissione Industria del Parlamento Europeo: già a fine luglio 2007, era stato promosso un pubblico tavolo di lavoro, ed era stata enfatizzata l’importanza di uno dei provvedimenti introdotti dalla nuova normativa allora in fase di discussione, ovvero il “product placement“.

De Michelis ha presentato i lavori, proponendo una lettura veramente alta, da ex ministro di livello, della tematica della Direttiva, contestualizzandola all’interno delle problematiche dell’industria culturale italiana tout-court, che soffre ancora di un deficit di “vision” strategica: manca ancora, in Italia, una vera “politica culturale”, soprattutto di respiro internazionale.

Si ricordi che, tra le non poche disposizioni significative introdotte dalla Direttiva, vi è il fissare alla soglia del 20% orario il tetto di affollamento pubblicitario, modifica che potrebbe determinare una qualche modificazioni alla struttura del mercato italiano.

 

Impressiona osservare – è stato notato dal Commissario Agcom Stefano Mannoni – come, in Italia, la nuova Direttiva sia stata oggetto di un silenzio… assordante, a differenza di quel che è avvenuto in altri Paesi. Il Commissario – con intervento ben dotto, infarcito di citazioni in francese – ha sostenuto che “la nuova normativa sconvolge l’armamentario mentale in cui è stato incanalato finora il ‘pensiero unico’ del pluralismo televisivo“. La Direttiva ci dovrebbe costringere a “rileggere tutto il set interpretativo del fenomeno televisivo come lo abbiamo finora considerato“. La posizione dell’Italia, nel dibattito in materia di “media audiovisivi non lineari” – per quanto essi siano ancora in fase “aurorale” -, appare “arcaica, di volontaria arretratezza, marginalizzata”.

Anche in questa dinamica, il nostro Paese evidenzia una sorta di sindrome da provincialismo autoreferenziale, chiuso nel dibattito sempiterno sul “duopolio” ed appassionato, più recentemente, dalla tortuosa vicenda delle frequenze da assegnare ovvero del risarcimento da erogare nei confronti di Italia 7. Il Commissario dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni si è fatto poi vanto di come Agcom stia preferendo procedure come la “self-regulation” e la “co-regolation”, utilizzando la eteronormazione solo in seconda battuta.

 

La Direttiva Audiovisual Media Services è il primo tentativo concreto dell’Unione Europea di regolamentare il passaggio da una cultura televisiva “lineare” ad una cultura “non lineare”: la citazione di Toffler e del suo avveniristico concetto di “prosumer” è ormai un classico, allorquando lo spettatore è sempre più attivo, “proattivo” appunto, ed ha, in prospettiva almeno, la possibilità di costruirsi un palinsesto a propria immagine e somiglianza, fruibile quando e come meglio ritiene.

Si tratta poi uno spettatore che, grazie alla rete, può mettere in rete – giustappunto – propri contenuti, e, per quanto l’economia degli user generated content sia ancora avvolta dalle nebbie (così come quella delle tante web tv che spuntano come funghi), non v’è dubbio alcuno che il futuro sia in questa convergenza, tra fruizione classica della tv tradizionale e fruizione innovativa di tv interattiva.

La stessa Roma Fiction Fest ha ospitato, tra l’altro, una selezione di produzioni di Tbtv-The Blog Tv, società specializzata nella realizzazione di format e documentari user generated (Leggi l’articolo): si ricordi che Tbtv produce già “Blister. Pillole dal web” per All Music (gruppo l’Espresso), “Citezen Report” per Rai (Rai Educational) e “Mamme nella rete”, il primo programma tv sulle mamme “fatto dalle mamme”, per Discovery (Discovery Real Time). Si tratta di veri e propri “ibridi” multi-piattaforma.

 

Hanno preso parte al dibattito Roberto Levi, Vice Presidente del Cepi (coordinamento europeo dei produttori indipendenti), che ha ribadito le tesi dell’italica Apt – Associazione dei Produttori Indipendenti, co-promotore del Roma Fiction Fest (presente in sala anche il Presidente vicario Carlo Bixio): senza dubbio, in Italia lo “statuto” del “produttore indipendente” è uno dei più arretrati e confusi, rispetto ai migliori esempi europei. La stessa Direttiva “Tv Senza Frontiere” è stata recepita dalla legge n. 122 tardi e male, e l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni non è certo intervenuta in modo incisivo.

Ciononostante, in Italia il business della fiction tv sembra ormai veleggiare intorno ai 1.000 milioni di euro l’anno.

Pierluigi Malesani, Presidente di NewCo Rai International ma anche Direttore dei Servizi Istituzionali della Rai, ha enfatizzato – con un intervento che egli stesso ha definito “strabico” piuttosto che provocatorio – come sia paradossale che l’80 % dei produttori che realizzano opere per e con Rai non siano paradossalmente classificabili come “indipendenti”, dato che l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha sostanzialmente affidato questa “qualificazione” ad una procedura di auto-certificazione, e la gran parte dei produttori stessi nemmeno si curano di iscriversi all’elenco dei produttori indipendenti!

Perché? La risposta è evidente: lo statuto dei produttori indipendenti è incerto ed aleatorio, Agcom non si è strutturata adeguatamente in modo tecnico per certificare questo statuto di “indipendenza”, Rai e Mediaset in qualche modo approfittano di questo lassismo amministrativo dell’istituzione preposta, e non richiedono nemmeno ai produttori di fornire la “certificazione”… In sostanza, una vera presa in giro (fatta la legge trovato l’inganno?!), ovvero un aggiramento della normativa europea. Le associazioni dei produttori – dall’Apt a Doc/it, associazione dei documentaristi – protestano, da anni, stancamente ormai quasi ritualmente, ma la loro protesta non viene ascoltata in sede Agcom, e, in verità, nemmeno in sede parlamentare o governativa.

 

Malesani ha anche sostenuto che Rai ritiene di poter riuscire, nel corso dell’esercizio 2008, a rispettare completamente le quote e le sub-quote di investimento (fiction, cinema, animazione, documentari…) previste dalla legge, con la sola eccezione dei documentari. Si ricorda che la tv pubblica, in virtù del “Contratto di Servizio”, è obbligata a destinare una quota non inferiore al 15 % dei ricavi complessivi (canone + pubblicità) alle opere europee, specificando che si tratta solo di quelle realizzate da produttori indipendenti negli ultimi 5 anni. Ricordiamo anche che al cinema la Rai deve riservare una sub-quota del 20 %, mentre quote più ridotte vanno a favore dei cartoni animati (5 %) e dei documentari (4 %). Il dirigente Rai ha anche annunciato che sembra essere giunta a maturazione l’intenzione di costituire una struttura interna ad hoc, proprio a favore del più bistrattato dei generi, qual è il documentario: abbiamo già numerose volte segnalato come la Rai sia l’unica emittente televisiva pubblica europea a non essere dotata di una struttura dedicata ad uno dei generi che pure dovrebbe essere tra i più importanti nell’economia di un sano “public service broadcaster”.

 

Piero De Chiara, Responsabile Regolamentazione Multimedia di Telecom Italia Media, ha lamentato ancora una volta l’anomalia assoluta di un Paese, l’Italia, nel quale non esiste autentica concorrenza, di fatto, perché il duopolio strangola qualsiasi chance di crescita di un soggetto terzo, nel business della tv “free-to-air”. Abbiamo già avuto occasione di evidenziare come questa sia una mezza verità, perché è altrettanto vero che Telecom Italia non ha mai messo in campo piani di investimento adeguati all’ambizioso obiettivo di costruire un “terzo polo”. Nello spietato business della tv generalista, è impossibile far le nozze coi fichi secchi. In altri Paesi (Regno Unito e Spagna), allorquando il soggetto nuovo entrante ha investito in modo consistente, i risultati, meccanicamente, si sono visti, in termini di share e raccolta pubblicitaria.

 

Marcello Berengo Gardin, Responsabile Comunicazione Istituzionale di Sky Italia, ha sostenuto che il suo gruppo sta mostrando una crescente attenzione nei confronti dell’industria nazionale della fiction (ha citato la serie “Quo vadis?”, peraltro annunciata in anteprima proprio l’anno scorso in occasione della prima edizione del Roma Fiction Fest), dichiarando la non necessità di norme cogenti e di quote obbligatorie nel settore, preferendo una visione liberista, affidata alle naturali dinamiche del mercato. E’ noto che Sky sia stata privilegiata, per molti anni, nella normativa italiana, essendo stata “vincolata” ad un investimento obbligatorio in produzione misurato – come per Mediaset (che pure ha tutt’altro business-model) – solo sui ricavi pubblicitari (notoriamente, questi non arrivano ad incidere per un oltre un 10 % sul totale del fatturato di una “pay”), e solo con la Finanziaria approvata a fine 2007 è stato introdotta una intensificazione dell’obbligo di investimento: Sky ed altre “pay tv” dovranno riservare una quota non inferiore al 10 % dei propri introiti netti annui (per la Rai, in coerenza con il nuovo “Contratto di servizio”, la quota è del 15 %), così come indicati nel conto economico dell’ultimo bilancio di esercizio disponibile, alla produzione, al pre-acquisto e all’acquisto di opere europee.

 

La novità più rilevante risiede nell’estensione del perimetro degli “introiti”, che – accanto ai ricavi da pubblicità, televendite, sponsorizzazioni, contratti e convenzioni con soggetti pubblici e privati, da provvidenze pubbliche – contempla anche le entrate derivanti da “offerte televisive a pagamento”, sebbene limitate ai programmi di carattere non sportivo e di cui si ha la responsabilità editoriale, inclusi quelli diffusi o distribuiti attraverso piattaforme diffusive o distributive di soggetti terzi”. Ciò significa, ad esempio, che il computo della quota, per quanto riguarda Sky (ma anche per le offerte in “pay per view” sul digitale terrestre di Mediaset e La 7), non va effettuato sull’intero fatturato (il 10 % di Sky equivale a 200 milioni circa), ma su un volume di introiti inferiore, decurtato sia dei ricavi legati ai programmi sportivi (in primis il calcio ovviamente) sia di quelli derivanti da canali terzi, di cui l’operatore che li ospita non ha la responsabilità editoriale. Anche in questo caso, all’interno di tale quota del 10 % si fissano “sottoquote” specifiche a sostegno dei film, con l’intento più volte a suo tempo dichiarato dall’ex Ministro Gentiloni di incrementare gli investimenti nella produzione cinematografica, riequilibrando una linea di politica mediale che, nell’ultimo decennio, ha favorito soprattutto l’industria della fiction.

 

Una prima sotto-quota tocca le emittenti e i fornitori di contenuti e di programmi in chiaro, ai quali si impone di destinare almeno il 30 % alle “opere cinematografiche di espressione originale italiana ovunque prodotte”. In pratica, Mediaset, La 7 ed altre tv in chiaro sono chiamate a destinare ai film italiani il 3 % del fatturato (inclusi i ricavi della “pay per view” a pagamento di Mediaset Premium e La 7 Cartapiù, ma esclusi i ricavi derivanti dai programmi sportivi), pari ad un ammontare complessivo – secondo una prima stima – di 75 milioni di euro. Una seconda sotto-quota, ancora più stringente, riguarda le emittenti, i fornitori di contenuti e di programmi a pagamento i quali devono destinare almeno il 35 %, alle opere italiane “appartenenti al genere di prevalente emissione da parte del soggetto obbligato” (la quota di riserva è ancorata al criterio “tematico”). Sky ed altre “pay tv” dovranno pertanto investire il 3,5 % del fatturato (ribadiamo, esclusi i ricavi dei programmi sportivi e quelli riferiti a canali terzi ospitati all’interno dell’offerta Sky) per un investimento che dovrebbe aggirarsi sui 50 milioni di euro (15 in più rispetto ai 35 messi a disposizione in base all’accordo biennale con Api e Anica) con una crescita stimata di circa il 15-20 % all’anno per il triennio successivo (Leggi articolo).

 

Andrea Ambrogetti, Presidente della Dgtvi, l’associazione per la promozione e lo sviluppo del digitale terrestre, ha ricordato come le “new television” soffrano – in tutto il mondo – di carenze di budget e come il mercato pubblicitario registri una stagnazione tale da rendere indispensabile, per i nuovi soggetti, cercare altrove le risorse per garantire la propria sopravvivenza. Ambrogetti si è poi concentrato, in particolare, sulla necessità di costituire una struttura “unitaria” per la promozione internazionale del “made in Italy” audiovisivo italiano, che dovrebbe essere promossa da Rai e Mediaset e dai produttori, con l’apporto dei dicasteri competenti (Mibac, Sottosegretariato alle Comunicazioni, Commercio con l’Estero, ecc…). E’ una idea valida e sacrosanta, che pure sembra cozzare con piccoli interessi di parte (basti ricordare la infinita querelle tra le strutture del cinema pubblico per la promozione internazionale del cinema italiano – ovvero Cinecittà – e le strutture promosse dalle associazioni degli industriali – Anica ed Api), senza che si riesca ad addivenire ad una lungimirante logica di “sistema Italia”.

 

Sono intervenuti anche Stefano Selli, Direttore della Federazione delle Radio Tv Locali, e Lisa Di Feliciantonio, Responsabile della Regolamentazione dei Contenuti di Fastweb, e Paolo Lutteri, Vice Presidente dell’Egta, associazione europea delle concessionarie pubblicità radiotelevisiva.

 

Complessivamente, si è trattata di una eccellente ed encomiabile occasione di dibattito critico: perché gli organizzatori di Roma Fiction Fest non mettono a disposizione della comunità dei professionisti la registrazione audio-video del convegno?

 

(All’articolo ha collaborato Vincenza Costa)

 

 

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Angelo Zaccone Teodosi, Presidente di IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale

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