Il Free/Open Source Software. Quali opportunità per le piccole e medie imprese italiane?

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Open source

L’articolo che segue, a firma di Sergio Mariotti e Cristina Rossi è tratto da la-rete.net (www.la-rete.net), il nuovo sito che intende sostenere il dibattito sulla società dell’informazione in Italia.

Un importante fenomeno sta oggi interessando diversi settori produttivi: l’affermarsi della cosiddetta openness, intesa, nella sua accezione più ampia, come una modalità di gestione collettiva e aperta delle risorse materiali e immateriali, prima tra tutte la conoscenza.

L’idea è quella di una collaborazione fattiva tra imprese, utenti e comunità di pratica che interagiscono tra loro con organizzazioni non gerarchiche, soprattutto, attraverso la rete Internet.

La openness ha natura trasversale: si sta diffondendo dall’editoria all’industria del cinema e del multimedia, dalle biotecnologie al settore del software. Si pensi, in proposito, alla ormai nota enciclopedia online Wikipedia (http://www.wikipedia.org), creata da volontari, che oggi contiene milioni di voci, o alla fondazione CAMBIA (http://www.cambia.org/daisy/cambia/home.html), nata in Australia con lo scopo di sviluppare collettivamente le innovazioni nell’ambito delle scienze della vita.

Tuttavia, è nel settore del software che l’idea ha avuto origine e sta ottenendo il suo maggiore successo grazie al movimento del Free/Open Source Software (FOSS), sviluppatosi, a partire dalla prima metà degli anni Ottanta, come reazione allo strapotere dei grandi del mercato e alla loro gestione dei diritti di proprietà intellettuale, basata sul pagamento di alti costi di licenza e sull’impossibilità di accesso al codice sorgente. Alcuni brillanti informatici statunitensi, molti dei quali lavoravano in prestigiose Università, avevano reagito a un simile modello contrapponendovi quello dello sviluppo collettivo dei programmi da distribuirsi con licenze che, in antitesi a quelle commerciali, garantissero, non solo la possibilità di accedere al sorgente, ma anche di copiarlo, modificarlo, ridistribuirlo.

Nato, quindi, come moto sociale, in difesa della libertà dell’utente di fare con il software ciò che più gli è utile, il paradigma FOSS sta attualmente rivoluzionando il settore. Moltissimi utilizzano, oggi, i programmi a codice aperto: il sistema operativo Linux, il più noto dei software FOSS, sta seriamente minacciando la supremazia di Microsoft Windows: nel 2007, ha avuto tassi di crescita a due cifre, con una quota di mercato, sul lato server, superiore al 12%. Alternative FOSS, affidabili e sicure, esistono oggi per la maggior parte delle soluzioni proprietarie: elaboratori di testi come OpenOffice, Web browser come Mozilla, Web server come Apache o linguaggi di programmazione, come Java o Perl, sono protagonisti di rapidissimi processi di diffusione.

Già da tempo i grandi hanno compreso le potenzialità di questo nuovo modello di produzione e distribuzione: IBM finanzia da anni lo sviluppo di Linux e si sta, attualmente, dedicando alla creazione di applicazioni FOSS (si veda http://www.ibm.opensource.com), con l’idea di liberarsi dello strapotere di Microsoft. Strategie orientate al FOSS sono adottate da Sun e da Apple.

Parallelamente, un numero crescente di piccole e medie imprese (PMI) sta entrando sul mercato proprio con lo scopo di proporre soluzioni e servizi basati su FOSS. I loro modelli di business sono incentrati sull’aggiunta di valore al codice liberamente disponibile su Internet, tramite l’offerta di servizi, quali installazione, manutenzione, integrazione, personalizzazione. Talvolta, questo porta alla creazione di veri e propri prodotti, programmi completi, del tutto simili a quelli sviluppati in maniera tradizionale.

Queste imprese, che potremmo definire FOSS-based, hanno nel FOSS la loro stessa ragione d’essere: il loro progetto di creazione del valore non sarebbe possibile senza il codice e le conoscenze create dalla comunità degli sviluppatori, che le esonerano dall’affrontare gli alti costi iniziali di produzione della prima copia o dal pagare licenze ai fornitori. Ciò comporta una notevole riduzione dei costi d’accesso alla tecnologia, permettendo, anche a realtà molto piccole, l’ingresso in mercati storicamente dominati dalle grandi software house.

In sintesi, il FOSS è, per sua natura, un bene collettivo in grado di ridurre le alte barriere all’entrata proprie del mercato del software: esso può essere, quindi, una valida alternativa ai modelli tradizionali, specialmente in contesti, come quello italiano, dove circa il 95% delle imprese conta meno di 10 addetti.

In Italia, il numero di imprese FOSS-based è in crescita, anche se, data la novità del fenomeno, è assai difficile azzardare stime precise. Il CIRET sta cercando di censirle (http://www.ciret.polimi.it/), basandosi sia su precedenti indagini (si vedano i lavori di Bonaccorsi e Rossi sulle indagini ELISS I e II: European Libre Software Survey, http://papers.ssrn.com/sol3/cf_dev/AbsByAuth.cfm?per_id=337876) sia sulla ricognizione di fonti alternative, quali associazioni (ad esempio FLOSS Piemonte su http://www.floss.piemonte.it e l’associazione Assoli, su http://www.softwarelibero.it/AssolImprese), fiere di settore, contatti con la comunità degli sviluppatori.

Il lavoro dei ricercatori è ancora agli inizi: attualmente, sono state individuate circa 80 imprese FOSS-based, ancora poche, naturalmente, ma già in grado di evidenziare alcune peculiarità. Si tratta, infatti, di realtà di piccolissime dimensioni, localizzate in prevalenza al Nord e in Toscana, che sono entrate sul mercato a partire dal 2000 e vantano una percentuale di addetti laureati superiore alla media italiana del settore, avendo anche, in generale, soci fondatori con elevate competenze tecniche. Sono, inoltre, attive in numerosi segmenti del mercato, avendo, spesso, come core business la fornitura di soluzioni connesse alla rete Internet: Web server, software per l’e-commerce, firewall, antispam, sistemi di content management.

I loro legami con la comunità degli sviluppatori FOSS, le portano a partecipare, anche direttamente, ai processi di sviluppo del codice, mostrando agli studiosi di economia, il paradosso di agenti orientati al profitto che collaborano alla produzione di un bene collettivo.

Alcune di esse, poi, dichiarano di avere tra i propri principali clienti la pubblica amministrazione, evidenziando come, i provvedimenti che incentivano l’utilizzo di programmi a codice aperto nella PA – si pensi, in proposito, alla direttiva Stanca (Gazzetta Ufficiale n° 28 del 04.02.2004) – non abbiano soltanto l’effetto di promuovere l’accesso dei cittadini all’eGovernment, ma favoriscano anche i processi imprenditoriali in settori ad alta tecnologia.

In sintesi, queste prime esplorazioni già mostrano come le imprese basate su FOSS abbiano tutte le caratteristiche delle cosiddette New Technology Based Firms, che hanno un ruolo fondamentale nei processi di sviluppo e crescita. Appare, quindi, chiaro come il FOSS possa rappresentare per il settore del software italiano, penalizzato nei grandi investimenti in R&D dalla dimensione delle sue imprese, un’opportunità che potrebbe consentire di prendere quel treno delle ICT che molti osservatori considerano ormai perso.

In quest’ottica, la sfida per i policy maker potrebbe essere quella di creare un ambiente il più possibile consono alla nascita e allo sviluppo delle imprese FOSS-based, garantendo loro fondi, spazi e infrastrutture, educando i cittadini a superare la loro, spesso immotivata, diffidenza verso i programmi FOSS, mirando, in generale, a promuovere la libera circolazione delle idee.

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