Web e censura: Yahoo! ha collaborato con Pechino, costretta a scusarsi con le famiglie dei dissidenti arrestati

di Alessandra Talarico |

Il Congresso: la società ‘gigante tecnologico ed economico, ma pigmeo dal punto di vista morale’.

Cina


Yahoo!

Scuse ufficiali sono arrivate dal Ceo di Yahoo!, Jerry Yang, all’indirizzo della madre del dissidente cinese Shi Tao, condannato grazie alla collaborazione della società, a 10 anni di prigione per aver diffuso sul web informazioni ritenute “segreti di Stato” dal governo di Pechino.

 

“Voglio scusarmi personalmente con i dissidenti e le loro famiglie per quello che stanno passando”, ha detto Yang di fronte alla Commissione Affari Esteri del Congresso Usa presieduta da Tom Lantos, il quale non ha risparmiato durissime critiche alla società, definendola “un gigante tecnologico ed economico, ma un pigmeo dal punto di vista morale”.

 

Lantos, che sta indagando sulle attività cinesi del portale, ha accusato la società non solo di aver collaborato con un governo repressivo, ma anche di aver mentito al Congresso lo scorso anno, quando era stata negata ogni forma di adesione alle richieste inquisitorie di Pechino.

 

Il legale della società, Michael Callahan, aveva infatti riferito di non essere a conoscenza della natura delle indagini condotte dalle Autorità cinesi nei confronti di Shi Tao, mentre un documento emerso successivamente provava che i dirigenti asiatici del colosso americano sapevano che l’inchiesta verteva sulla diffusione di ‘segreti di Stato’, dicitura utilizzata generalmente nei casi che coinvolgono dissidenti politici.

Il documento incriminato diffuso da Shi Tao conteneva in effetti una nota interna trasmessa alla sua redazione dalle autorità per mettere in guardia i giornalisti contro la destabilizzazione sociale e i rischi legati al ritorno di alcuni dissidenti in occasione del 15° anniversario del massacro di piazza Tiananmen.

Il giornalista, arrestato nel novembre 2004, ha confermato di aver inviato il documento via email ma ha contestato il suo carattere “top secret”.

 

Secondo l’associazione Reporters sans Frontieres, l’arresto sarebbe stato reso possibile proprio dalla “delazione” di Yahoo! che avrebbe fornito le informazioni che hanno permesso di risalire all’identità del giornalista.

 

Yahoo ha sempre difeso l’operato dei suoi dipendenti, che avrebbero rischiato essi stessi l’arresto se non avessero fornito al governo di Pechino le informazioni richieste e ha ribadito che l’aiuto fornito per l’arresto di Shi Tao sarebbe stato il risultato di un malinteso, ma Lantos, nel corso della tesissima udienza, ha definito questo atteggiamento nel migliore dei casi “imperdonabile e negligente. Deliberatamente ingannevole nel peggiore”.

 

All’udienza era presenta anche la moglie di Wang Xiaoning, blogger arrestato nel 2002 per aver usato internet – attraverso un account Yahoo – per reclamare maggiore democrazia in Cina. Secondo quanto sostenuto da diverse associazioni umanitarie, ci sarebbe lo zampino della società anche in questo arresto.

 

Yahoo! ha debuttato sul mercato cinese nel 1999 e negli ultimi anni ha investito somme ingenti per conquistare una posizione di rilievo sul mercato cinese, secondo per numero di utenti soltanto agli Usa: nel 2003 ha acquistato il motore di ricerca cinese 3721.com per 120 milioni di dollari. Più recentemente ha acquisito per 1 miliardo di dollari, il 40% del capitale di Alibaba, la maggiore azienda cinese di e-commerce e proprietaria del sito di aste online Taobao.com, diretto competitor di eBay.

 

Yahoo! ha assicurato che in futuro sarà più accorto nelle negoziazioni con i Paesi che limitano l’accesso alle informazioni e si è impegnato a ‘considerare’ l’eventualità di garantire un sostegno economico alla famiglia dei dissidenti arrestati.

 

La società di Sunnyvale non è comunque certo l’unica multinazionale a essersi piegata ai dettami dei Paesi repressivi: Yahoo, come del resto molti big player della Rete, ha accettato di censurare la versione cinese del proprio sito per non incorrere nelle ire del governo di Pechino, ragion per cui, se si digitano sul motore di ricerca parole come “libertà”, “democrazia”, “indipendenza di Taiwan”, i risultati saranno nulli o accuratamente selezionati.

 

Anche Google – che invece negli Usa difende strenuamente i diritti di riservatezza e libertà degli internauti – ha ceduto alle pressioni ed è stata per questo accusata di sostenere la politica del ‘due pesi due misure’.  

 

Il gruppo si è difeso ammettendo che la stessa politica di accondiscendenza ai dettami governativi è applicata anche in Europa e negli Stati Uniti, che impongono limitazioni all’accesso a informazioni relative al nazismo e alla pedopornografia. Si tratta, però, di cose ben diverse e richieste da governi non certo repressivi.

 

Le società internet, più recentemente, hanno cercato di smorzare le polemiche avviando forme di cooperazione con le associazioni a difesa dei diritti umani e della libertà di stampa per realizzare un codice di condotta atto a proteggere la libertà di espressione e la privacy dei loro utenti, dopo l’ennesimo discusso caso della condanna a 4 anni di prigione del blogger egiziano Abdel Kareem Nabil Suleiman (“Kareem Amer”), 22 anni, accusato di aver postato commenti incitanti all’odio contro l’Islam e di aver insultato il presidente Hosni Moubarak sul suo blog.

 

Certo è che con l’avvicinarsi delle Olimpiadi la Cina, col suo scarsissimo rispetto per i diritti umani, è sotto i riflettori internazionali, con tutte le conseguenze immaginabili per le compagnie occidentali che fanno business nel Paese e che non vogliono rinunciare a una fetta dell’immenso mercato, secondo solo agli Stati Uniti.

 

L’unica alternativa al mancato rispetto delle imposizioni del governo è quella di abbandonare il Paese, cosa che – dicono le web company – non sarebbe certo di aiuto agli utenti cinesi.

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