Marketing televisivo. D. Bergamini (Rai): ‘Lo strumento privilegiato per orientare l’evoluzione della Tv e il suo sviluppo futuro’

di di Deborah Bergamini (Direttore marketing Rai) |

Pubblichiamo la prefazione di Deborah Bergamini al libro “Marketing Televisivo”, di Carlo Nardello e Carlo Alberto Pratesi. Si avverte, ancora una volta, l’esigenza di aprire un confronto su questi temi.

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Mercato televisivo

Condividevo qualche tempo fa, con un gruppo di giovani intellettuali italiani, una riflessione: le persone, soprattutto nei paesi occidentali, stanno perdendo la capacità di immaginare il futuro.

Siamo arrivati a questa considerazione partendo da una constatazione apparentemente frivola, e cioè che la fantascienza come genere letterario ha praticamente smesso di esistere. Parlo della fantascienza che quelli della mia generazione leggevano da ragazzi, pieni di entusiasmo per il mondo che un giorno sarebbe potuto essere.

Abbiamo dovuto constatare che oggi non esistono più i sogni, la voglia di futuro, di grandi autori come Philip Dick, James Ballard o Stanislav Lem. La fantascienza, come tante altre forme di creatività umana, è rimasta vittima di una malattia contemporanea: stiamo perdendo la capacità di proiettarci in avanti, di immaginare il domani come una possibilità, anziché come una minaccia. E questo non sta accadendo solo a livello individuale o sociale, ma anche nell’ambito dei media, e più specificamente della televisione.

 

Noi manager del settore televisivo lamentiamo un forte calo di creatività, di originalità, di propensione al rischio, ci guardiamo attorno in cerca di idee qualificanti. E intanto ci accontentiamo di riprodurre il presente pervasivo nel quale sembriamo tutti impigliati: la televisione assomiglia sempre di più a un reality senza fine.

Capiamo tutti che così non può andare: e forse proprio per questo i servizi pubblici radiotelevisivi dibattono molto in questi anni su quale deve essere la loro mission, il fine che giustifichi il finanziamento pubblico che è loro destinato.

I servizi pubblici non sono passati indenni dalla rivoluzione tecnologica degli anni Novanta: il loro orizzonte tradizionale si è disperso. Spariti i riferimenti spazio-temporali, scardinate le frontiere culturali e nazionali, distrutte le vecchie impostazioni monopolistiche, esplose nuove forme di comunicazione, le televisioni pubbliche hanno dovuto prima di tutto sopravvivere.

Oggi però sono entrate in crisi di identità e hanno bisogno di nuove coordinate di riferimento. Sopravvivere nello scenario attuale non è più sufficiente: che fare? Quali servizi offrire? E per quali pubblici?

 

Il servizio pubblico porta su di sé la responsabilità di riflettere e decriptare l’evoluzione della società, che mi sembra oggi a un bivio fondamentale: la ricostituzione di una nuova società oligarchica, ancor più divaricata fra ricchezza e povertà, in cui il criterio sociale è quello della cooptazione e della conservazione o una società demodinamica, così come definita da Pierre Lévy (L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio), che abbia come suo fondamento non più il potere, ma il potenziale. Quindi una società per definizione inclusiva.

Il servizio pubblico radiotelevisivo, per sua natura, deve essere parte sostanziale della seconda opzione.

 

Per riuscirci, deve anch’esso superare un bivio: può continuare a illudersi di raccontare una società sempre più complessa attraverso una malintesa cultura di massa a prezzi scontati, che sembra offrire tutto a portata di tutti ma che rischia invece di accelerare il divario fra coloro che hanno accesso alla costruzione di intelligenza e di vera cultura e coloro che restano solo mercato. Ma questa sarebbe una scelta di breve periodo, che potrebbe determinare una drammatica regressione socio-politica e psicologica. Oppure, questa è l’alternativa, accettare che il senso di una società inclusiva, basata sul potenziale anziché sul potere, si fonda necessariamente sullo sviluppo dell’intelligenza individuale e collettiva, sulla chiamata a responsabilità del singolo prima di tutto verso se stesso e poi verso la società.

 

Esiste un denominatore comune: l’uomo. Credo che l’uomo sia la fonte da cui bisogna scavare per risolvere tutti quei problemi che la vita ci dà come gioco di intelligenza, ma che se non risolti non possono che determinare un’involuzione di massa. E qui la televisione pubblica può davvero trovare un ruolo primario da giocare: può offrire al cittadino gli strumenti per orientarsi nella nuova società del sapere, inteso nel senso di Lévy, come saper-vivere o come vivere-sapere.

Riabituare il cittadino a una cultura umanista della vita che lo veda protagonista responsabile della società, padrone del proprio specifico evento. Libero dai luoghi comuni codificati dai media.

 

Se questa è la scelta, non si deve più pensare alla televisione solo come abbiamo fatto fino ad oggi, una sorta di tutrice capace di educare, informare e intrattenere, ma ad un nuovo “terminale interattivo”, bidirezionale, capace di combinare un’offerta comune – imprescindibile per il mantenimento di un’identità sociale – con una domanda aggiuntiva individuale. È chiaro infatti che la “rete”, con i suoi blog e le sue chat, costituisce uno spazio di libertà e creatività che come tale va difeso e promosso, ma certo di per sé non realizza la società della conoscenza ma consolida, piuttosto, la società del consumo e del relativismo.

Certo il servizio pubblico di questa nuova società in fieri deve essere capace di fare autocritica, proprio perché cosciente della propria responsabilità. Deve saper ritrovare la capacità e la voglia di offrire una programmazione viva, utile a pensare, e non ad appoggiarsi a un senso comune che troppo spesso è l’alibi della paura di fallire.

Non si tratta di costruire un sapere pre-orientato, delle idee da consumare, ma piuttosto di insegnare un criterio di intelligenza, di ricreare una libertà di gusti e opinioni, un’estetica, di richiamare ad una primaria responsabilità verso se stessi, verso la propria unicità.

 

Se parliamo di una società della conoscenza, se diamo peso e valore alle parole, allora stiamo riferendoci ad una società dell’inclusione, a una società dove il servizio pubblico trova di diritto il proprio posto e la propria missione: aiutare il cittadino a orientarsi costantemente, a non perdersi ma anzi a trovarsi a suo agio nel cambiamento continuo; a costruire un nuovo diritto di cittadinanza basato su di sé come individuo responsabile, come protagonista di una stagione di nuovo umanesimo. Se è questo il ruolo del servizio pubblico radio televisivo, occorre però considerare che la naturale evoluzione dei media determina l’esigenza di operare in mercati sempre più selettivi.

Il marketing diventa quindi sempre più uno strumento fondamentale per poter identificare la giusta rotta per adempiere alla propria missione.

 

 

Recensione del libro “Il Marketing Televisivo”

 

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