Tv locali davanti a convergenza e internazionalizzazione dei mercati. Presentazione del libro di Flavia Barca

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Riportiamo di seguito l'introduzione del libro di Flavia Barca 'Le Tv invisibili. Storia ed economia del settore televisivo locale in Italia', che verrà presentato il 28 giugno presso la sede RAI di Roma in Viale Mazzini, 14.

Italia


Flavia Barca

Obiettivo di questo lavoro è di supplire alla mancanza di uno studio sistematico sul settore televisivo locale. Escludendo la ricerca realizzata dall’autrice assieme a Patrizia Novella nel 1996 – che peraltro si limitava a mettere sotto esame alcuni aspetti specifici dell’emittenza locale – non esistono, come si potrà evincere anche dalle fonti riportate in bibliografia, trattazioni estese sull’argomento. In particolare non vi è alcun tentativo di ragionare in modo compiuto, a parte pochi e sporadici contributi, sulle modificazioni delle caratteristiche del mezzo televisivo imposte dall’irrompere della tv privata in un settore a monopolio pubblico.

Mancano, infatti, studi storici specifici sulla nascita della tv commerciale in Italia e sull’evoluzione dell’emittenza locale dagli anni settanta ai giorni nostri, e manca una riflessione su come si sia evoluta l’economia di questa industria nei suoi 30 anni di vita. Manca, inoltre, uno sguardo sugli obiettivi e i modelli che guidano il settore, e su quali siano i bisogni al quale quest’ultimo si trova a dover rispondere.

 

Il tentativo di questo lavoro è di colmare questa lacuna, affrontando l’universo locale mediante livelli di lettura e approcci disciplinari,  punti di vista e chiavi di analisi molto differenti tra loro. I risultati dei singoli percorsi offrono, mi sembra, letture trasversali di grande interesse per comprendere la vera natura e i tratti dominanti del settore televisivo locale.

Si spera in questo modo di gettare le basi per future riflessioni e futuri lavori. E’ ancora, infatti, tutto da avviare un ragionamento sul concetto stesso di “locale” rapportato alla televisione. Genericamente, e a livello teorico, potremmo parlare di trasmissioni dirette ad un bacino d’utenza limitato, sub-nazionale. Una tv più vicina a noi insomma, “di prossimità” come segnala Salvatore nella sua analisi dei modelli europei.

Epperò rimane l’interrogativo di cosa significhi fare televisione locale oggi, nel pieno della convergenza e dell’internazionalizzazione dei mercati, nella totale trasformazione che l’industria della comunicazione sta subendo ad opera di internet e del suo potenziale straordinario di avvicinare tra loro mondi fino ad oggi sconosciuti e irraggiungibili.

Qual è la mia piazza virtuale oggi? L’intero mondo? E’ ancora necessaria, quindi, una finestra televisiva sul cortile nel momento in cui io posso attivare tramite il web un numero infinito di finestre su un numero infinito di cortili? Ed ancora: la tv locale in Italia è mai stata, veramente, una finestra sul cortile? E se così fosse potremmo definirla in qualche modo un servizio pubblico?

 

Il libro segue un percorso a più tappe e mette sotto esame le caratteristiche dell’universo locale da un punto di vista storico (per comprendere un fenomeno bisogna sempre ripartire dalle origini) tecnologico (dall’analogico al digitale, dall’etere al cavo), di prodotto (cosa offrono i palinsesti locali?), di finanziamento e proprietà (quanto conta la proprietà nella strategia dell’emittente?), di fatturato (dalla micro tv a conduzione familiare al gruppo tv integrato), di mission (commerciale, pubblica, comunitaria…). I principali risultati che la ricognizione ha messo in luce vengono qui di seguito introdotti, ma si rimanda comunque ai singoli saggi per una trattazione approfondita dei diversi argomenti.

 

Un Settore Invisibile

 

Una delle ragioni in grado di spiegare la mancanza di una adeguata letteratura sull’argomento è che l’emittenza locale si presenta tuttora, all’età di trenta anni, come un settore scarsamente strutturato. Ciò si traduce in una inadeguata “visibilità” del fenomeno. Le risorse non sono, infatti, quantificabili perché in gran parte “sommerse”. Non si conosce l’esatto contenuto dei palinsesti trasmessi dalle emittenti locali né, in alcuni casi, l’esatta natura della loro proprietà. Se una grossa parte dell’emittenza locale sopravvive come strumento di comunicazione commerciale e politica, ci si aspetterebbe, di conseguenza, una audience consistente, un ascolto attento, una programmazione strategica e soprattutto, visibilità. Invece le aziende, come nel caso della programmazione e delle risorse così in quello della struttura aziendale, del personale, del bilancio, etc., hanno per lungo tempo fatto di tutto per rendersi “invisibili”, principalmente nell’attesa e nel timore di interventi legislativi e definitivi assetti del sistema, sulla cui latitanza l’emittenza locale ha costruito la propria forza, e la propria debolezza.

 

Se, infatti, molte tv locali hanno un brand rilevante, faticosamente costruito con una informazione di qualità e, in generale, con una cura meticolosa della propria immagine e del proprio palinsesto, la maggioranza degli operatori veicola una programmazione monopolizzata dalle televendite; in questo modo i pochi prodotti originali si trasformano in aghi in un pagliaio, talmente invisibili da scoraggiare anche il telespettatore più paziente. Le sporadiche informazioni reperibili sulle guide tv (che trattano esclusivamente le emittenti di maggiori dimensioni) sono comunque talmente sintetiche da risultare incomprensibili se non per gli appuntamenti calcistici, e si rivelano al dunque imprecise, impedendo qualunque pianificazione del videoregistratore. L’invisibilità dei palinsesti a matita è amplificata dalla mancanza di una memoria storica della programmazione, frutto dell’impossibilità di mantenere copia dei programmi per l’eccessivo costo di un sistema di archiviazione. Tale lacuna, potenzialmente colmabile con le nuove strumentazioni permesse dall’innovazione tecnologica, è quasi suicida in un sistema che vive ormai dell’eterno riciclo delle trasmissioni, sia di stock che di flusso (1). Qualunque programma del quale si abbiano i diritti (e, per le tv locali, talvolta, anche in mancanza di questi ultimi) è riproponibile e riciclabile, ed in questo senso l’archivio diviene asset sempre più fondamentale per un broadcaster. Ma la maggioranza delle tv locali non se lo possono permettere.

 

Allo stesso modo sono invisibili i bilanci, caratteristica, questa, propria di gran parte delle piccole e medie imprese in Italia, che rende molto complessa una valutazione dell’efficienza gestionale delle emittenti locali e del loro modello di business. E’ impossibile, per esempio, capire il reale numero di occupati del settore – per non parlare dell’indotto – perché ci sono molte formule di accordo che sfuggono al bilancio, la più ovvia è quella del lavoro volontario a rimborso spese, e le stesse televisioni sono molto evasive sull’argomento per tema di indagini fiscali o altro.

 

Sono invisibili, poi, i collegamenti proprietari. Se, in alcuni casi, i legami sono manifesti e notificati alle autorità competenti, il più delle volte, poiché magari l’intestatario della società è un parente o un prestanome, essi non sono rintracciabili e questo impedisce di profilare accuratamente l’entità dei gruppi di tv locale che operano in Italia.

Questo atteggiamento non è funzionale ad una strategia competitiva nei confronti delle altre imprese di settore, cioè l’invisibilità non è frutto della ricerca di un vantaggio competitivo di una azienda verso un’altra, ma il “nemico”, in una logica tutta italiana, è lo stato, dal quale bisogna “difendersi”, difendersi dalle leggi, dal sistema fiscale, dalla burocrazia. In questo senso il settore locale ha fatto tesoro delle proprie origini, “rivoluzionarie” e fuori dalla legge, e lo stampo primario ha profondamente modellato la storia delle piccole emittenti, che di fatto con lo stato non hanno mai fatto i conti. E’ un paradosso, perché leggine, interventi della Corte Costituzionale, delibere etc. diretti alle tv locali non sono mancati, e la percezione, da parte degli operatori di settore, è che lo stato sia fin troppo presente e pressante. In qualche modo l’emittenza locale ha vissuto lo stato nella sua componente più negativa, vessatoria, pesantemente burocratica, senza averne in cambio una solida politica industriale in grado di restituire al settore dignità e forza, e con gli anni quest’ultimo ha sviluppato la tecnica del “muro di gomma”, che coniuga l’invisibilità con la capacità di metabolizzare riforme, delibere, leggi, ingiunzioni etc… senza farsi mai troppo condizionare e trasformare nella propria essenza.

 

La Doppia Vita di una Tv Locale

 

Ma quale è l’essenza di una tv locale? Si ragiona in più occasioni, nei diversi saggi che compongono questo volume, su quale sia il vero “core” dell’attività televisiva a livello locale. E’ evidente che questo non è rintracciabile, almeno per la stragrande maggioranza delle emittenti, nella produzione di programmi. I palinsesti sono, infatti, come già argomentato, “sottili”, quasi trasparenti, invasi dalle televendite ma non per questo così redditizi da controbilanciare gli elevati costi del personale sopra e sotto la linea, talvolta ricchi di news, comunque necessarie ma non sufficienti a fidelizzare il pubblico e creare un circolo virtuoso tra domanda e offerta.

Appare anche azzardato e fuori luogo applicare al settore locale il ragionamento che fa dell’attenzione dell’utente finale il vero prodotto televisivo, quell’attenzione che gli investitori pubblicitari acquistano dal broadcaster a costi proporzionali al numero di “teste” raggiunte. I dati sul fatturato del settore mostrano, infatti, come le risorse siano assolutamente insufficienti a sostenere l’attività delle imprese (vedi il saggio sugli aspetti economici), e come non ci sia nessuna proporzione concorrenziale tra i diversi parametri del sistema televisivo. Se, infatti, le emittenti locali sono quasi 600 e nella pianificazione delle frequenze digitali si prevede che sia riservato loro un terzo delle frequenze disponibili in Italia, quindi il 33,3%, la corrispettiva quota degli ascolti è, invece, del 4% circa (6,3% se si fa riferimento alle “tv altre stimate da Auditel), degli introiti pubblicitari del 10% e delle risorse complessive del 5,9%.

 

L’esame di questi dati, che mostrano una condizione di totale inefficienza del settore, potrebbe però indirizzarci verso una lettura semplicistica del fenomeno. Sono anni, infatti, che tale situazione, abbastanza evidente e sotto gli occhi di tutti, viene interpretata da analisti ed operatori come effetto di un malfunzionamento del mercato. Le cause sono diverse: tra le principali lo strapotere dei due maggiori network nazionali, la pratica dei ribassi del costo degli spazi pubblicitari, la mancata fiducia degli inserzionisti verso gli operatori locali. E’ incontrovertibile che questo sia corretto. Peraltro è sempre stato così, cioè questa è una dinamica propria del settore locale fin dalle sue origini. Una malattia endemica. Ed è proprio questo che dovrebbe porre dei dubbi. E far riflettere. Non potrebbe essere allora che quella sopra descritta è una caratteristica propria del settore locale? Strutturale? Tale ipotesi potrebbe essere confermata dalle difficoltà in cui versa il settore locale anche in altre nazioni, come la Spagna. E ‘ possibile, quindi, affermare, alla luce dei ragionamenti qui sopra condotti (ed approfonditi nei saggi che seguono), che le tv locali vivano una situazione di crisi permanente legata, in parte, a fattori connaturati (in primis la mancanza di bacini d’utenza tali da realizzare economie di scala), in parte a fattori contingenti relativi alle caratteristiche del mercato frutto delle scelte – o delle non-scelte – di politica industriale portate avanti nel corso degli anni. Ma questo non è sufficiente a giustificare la presenza nel mercato di un numero così elevato di soggetti e, soprattutto, l’interesse verso questa attività da parte di editori estranei all’industria della comunicazione.

 

Nel saggio sugli aspetti economici del settore locale riprendo, a questo proposito, la tesi già espressa nel 1996 secondo la quale gli investimenti si dirigono al broadcasting locale solo nella misura in cui questo assicura visibilità e potere politico sul territorio. E’ questo sicuramente un aspetto molto importante della questione. Ma c’è anche dell’altro. Qualora, infatti, si confronti il settore sotto esame con quello della stampa locale, risulta evidente che quest’ultimo, sebbene sia luogo di incontro privilegiato tra industria, enti locali e “poteri forti”, è al contempo anche terreno importante di produzione di informazione di alta qualità, nonché fonte di risorse che, negli ultimi anni, hanno segnato un andamento positivo di grande interesse. Il settore della stampa locale svolge al pieno, insomma, le sue funzioni “locali” come finestra sul cortile, strumento di avvicinamento del cittadino alle istituzioni e all’informazione in generale, e come luogo di incontro tra gli inserzionisti locali e la propria utenza di riferimento. L’emittenza locale, invece, lo fa solo in minima parte. E la ragione è – e veniamo così al punto di partenza di questa riflessione – che le tv locali hanno, in realtà, una doppia vita. Se i programmi televisivi, infatti, e la relativa audience veicolata, sono i prodotti vetrina, e costituiscono formalmente l’attività delle imprese televisive locali, in realtà, nel nostro paese, il vero asset sono le frequenze.

 

Il vero elemento di forza delle tv locali in Italia è quello delle frequenze. E’ questo che rende il modello italiano unico al mondo e che lo fonda sulla rendita – ciò è comune ad altri settori, dalle farmacie ai taxi agli studi notarili – assicurata dal possesso della “licenza”. E’ una caratteristica tutta italiana, infatti, il controllo delle rete da parte degli editori locali, e l’enfasi sull’attività dell’operatore di rete piuttosto che su quella di fornitore di contenuti. La disponibilità di una frequenza è come la licenza che ha un valore in sé anche se la si usa poco o non la si usa; è come il mattone, è difficile che si svaluti, anzi è più probabile che il suo valore salga nel tempo, e se l’appartamento è sfitto e non ci abita nessuno non è che questo abbia nessun effetto sulla compravendita. Se le emittenti producono contenuti è per passione o per posizionamento politico, ma il business – è a questo punto evidente – è un’altra cosa. Ed in questo senso si spiega perché a fare televisione  – a differenza di paesi, come per es. la Spagna, dove gran parte del settore locale è funzionale alle strategie di integrazione verticale dei grossi gruppi della carta stampata – siano principalmente soggetti che provengono da settori non media e, vale la pena di ricordarlo, non “creativi”.

Da quando il settore televisivo locale italiano ha “perso la sua verginità”, alla fine degli anni settanta, rinunciando ad alcuni suoi tratti originali, ma anche cannibalizzato di gran parte delle sue risorse (radioelettriche, economiche, umane, creative) inglobate nei nascenti network nazionali, a fronte di una grande incertezza riguardo alla perimetrazione del proprio universo e alla propria identità, il valore delle frequenze è stata forse l’unica vera ossatura di questa industria, la principale ratio di un investimento in un terreno altrimenti impervio e nebbioso.

 

Eppur si Muove

 

Se il core asset di una emittente locale non è la produzione e distribuzione di programmi, né il reperimento di risorse pubblicitarie, ma le frequenze, da proteggere adeguatamente con complesse e articolate attività di lobby, è pur vero, però, che ci sono emittenti che producono programmi e risorse anche in modo significativo, e che, comunque, in generale, il settore locale è un universo molto complesso e difficilmente categorializzabile.

Già lo studio condotto da Barca/Novella nel 1996 aveva evidenziato la convivenza nell’universo locale di realtà molto diverse tra loro, con una serie di tratti comuni riconducibili ad un legame tra dimensioni, ascolti e modello commerciale dell’emittente. Tale legame è stato riconfermato dall’indagine sul campo condotta nel 2005. Le prime 17 emittenti per fatturato – questo è uno dei dati più significativi emersi dallo studio – con introiti superiori ai 5 milioni di euro (mentre il 90% dell’universo raccoglie tra 0 e 2 milioni), si staccano dal resto del settore non solo per l’elevata quota di ascolto che catalizzano – grazie ad una attenzione ai contenuti autoprodotti, specie di informazione – ma anche per i consistenti trend di crescita di quest’ultima, in controtendenza rispetto ad una stagnazione dello share che contraddistingue la maggior parte del settore. Il dato è importante perché mostra che, laddove si investa realmente sul prodotto locale, c’è un corrispettivo ritorno in termini di brand, fidelizzazione e fatturato. Il punto, cioè, è che se è vero che una tv locale è – paradossalmente – una tv locale anche senza prodotto locale (vedi supra), quest’ultimo può, comunque, divenire importante fattore di produzione – e di redditività. Affinché tale condizione si verifichi è, però, necessario che l’emittente abbia alle spalle un consistente bacino d’utenza e un gruppo societario in grado di disporre di linee di credito in grado di fronteggiare un business a così alto rischio.

 

Il prodotto torna a giocare un ruolo importante – come seconda anima appunto – per una parte delle emittenti alla base della piramide, cioè il sotto-insieme più “povero” delle micro-imprese, quelle 100 tv circa che denunciano un fatturato pari a 0 o che non presentano dichiarazione. E’ li, nelle tv comunitarie o comunque sub-provinciali che si compie quell’incontro intimo tra l’emittente ed il proprio pubblico veicolato da una programmazione fortemente centrata sull’autoproduzione, specie di flusso. In questo caso il palinsesto non è fonte di redditività ma solo di rapporti fidelizzati con il proprio pubblico e con pochi inserzionisti spesso sufficienti a ripagare le spese strettamente necessarie al mantenimento degli impianti.

 

Nella fascia intermedia tra tv medie e micro-tv, ma anche per gran parte di quest’ultimo sub-universo, accanto ad emittenti che consacrano il proprio marchio attribuendo uno spazio rilevante all’informazione e correlati programmi, come lo sport (ma ci sono anche le trasmissioni musicali e di comicità sulla falsariga di Zelig, specie al centro-sud), sono molte quelle che affidano alle televendite la parte più consistente del proprio palinsesto; l’inserzionista entra così a monte della filiera tv e il broadcaster è ormai solo luogo d’incontro e non più di mediazione tra l’inserzionista e l’utente.

Questi diversi modi di essere locale spesso si alternano e convivono all’interno di una stessa emittente, mostrando le tensioni e le contraddizioni di un settore che fatica a coniugare l’industria con l’arte, il mimetismo con la valorizzazione del brand, la gestione della rete con la produzione di contenuti, il contenimento delle spese con l’innovazione, e che ribadisce in continuazione la propria dimensione locale anelando al contempo ad una dimensione maggiore. E’ forse arrivato il momento, allora, di fare un poco di ordine e raccontarsi anche verità “scomode”, accettando, per esempio, una volta per tutte, che la vera mission di gran parte delle emittenti locali è quella di gestire la rete e non di produrre contenuti. Questo permetterebbe, finalmente, al settore, di gestire appieno e con dignità il proprio bene primario, le frequenze, lasciando, per esempio, ad altri soggetti la funzione editoriale. E’ una ammissione che darebbe forza all’emittenza locale, aprirebbe il mercato ad una serie di soggetti nuovi e produrrebbe forse un sistema televisivo più ricco qualitativamente e più efficiente.

 

L’onda Lunga dell’Innovazione

 

Nel contesto sopra descritto l’onda lunga prodotta dalla convergenza, dalla digitalizzazione e dall’internazionalizzazione dei mercati ha investito il settore locale ponendo il più delle volte interrogativi molto più articolati e complessi delle risposte che esperti ed operatori sono poi stati in grado di formulare. 

Le profonde trasformazioni del mercato televisivo negli ultimi anni, legate all’innovazione tecnologica e alla progressiva convergenza dei mercati, hanno, infatti, imposto un ripensamento del ruolo dell’emittenza locale, da tv costruita come specchio della piazza a tv “a la carte” per il cittadino. Uno spostamento di tecnologie ma soprattutto di ruoli e di modelli di business.

Si è creduto che le piccole tv potessero, ora, coronare il proprio sogno di conciliare l’essere locale con la “delocalizzazione”, muovendosi verso il satellite e il cavo e sancendo, quindi, il matrimonio tra locale e globale, in quella magica formula di “glocal” secondo i teorici della quale è possibile mantenere, anzi rafforzare, il nostro essere diversi, la nostra identità culturale, pur saltando sul carro della globalizzazione.

 

Si è creduto che, finalmente, dopo anni, decenni anzi, di discussioni sul potenziale interattivo della tv, quest’ultimo avesse trovato nello sviluppo del digitale, specie se indirizzato a bacini d’utenza sub-nazionali, il terreno di sua massima espressione, coniugando il tema dell’accesso con quello della profittabilità economica. In questo modo – è stato argomentato – lo sviluppo del digitale avrebbe riconciliato l’emittenza locale con il suo ruolo primigenio, di tv a portata del cittadino, di tv di servizio, ridandole una mission e nuove sostanziali fonti di revenue. Come ricorda D’Arma nel suo lavoro, “la televisione digitale terrestre (compresa quella in ambito locale) è stata investita di un ruolo ben preciso nell’ambito della strategia governativa per la diffusione dei servizi della società dell’informazione” ed è stato, sempre in ambito governativo, più volte annunciato che la tv locale, in particolare, avrebbe trovato nell’interattività e nel rapporto con le amministrazioni locali il suo modello di business e la consacrazione del suo ruolo sociale.

 

Ma le promesse di grandi cambiamenti e mirabolanti futuri che, secondo molti, l’innovazione tecnologica avrebbe portato con se, vanno ridimensionate e, soprattutto, contestualizzate alla storia di un settore dove, gattopardescamente, da sempre, i grandi cambiamenti sono forieri del più paludoso degli immobilismi.

Innanzitutto, le tv che hanno scelto di avviarsi verso una dimensione multipiattaforma, veicolando i propri palinsesti – se non una programmazione realizzata ad hoc – sul cavo o sul satellite, sono molto poche, a fronte di ritorni minimi in termini di investimenti pubblicitari e di una visibilità aggiuntiva comunque non funzionale in termini di politica sul territorio.

 

Per quanto riguarda il digitale terrestre (DTT) le scadenze fissate da Ministero ed autorità di competenza per richiedere la licenza di operatore di rete ed avviare la sperimentazione sono state rispettate da tutti gli operatori di settore, il cui numero ha, inoltre, subito solo una leggerissima flessione rispetto ai soggetti ai quali nel 2001 era stata attribuita una concessione analogica. Questo, che potrebbe sembrare un segnale positivo, è in realtà indice del fallimento della politica industriale governativa. Se, infatti, la ratio del regolatore era quella di stimolare, da una parte, i processi concentrativi per ridurre l’eccessiva frammentazione del settore e, dall’altra, fare dell’avvio al digitale una occasione per mettere ordine nel caos delle frequenze separando, almeno societariamente, la rete dai contenuti, entrambe le condizioni non si sono verificate. La compra-vendita delle frequenze è andata, infatti, principalmente a favore dei network nazionali, alla ricerca di canali per le nuove reti digitali fisse e mobili e, comunque, il più delle volte, le tv locali si sono limitate a cedere i cosiddetti “rami d’azienda”. Le emittenti, inoltre, hanno completamente rigettato l’ipotesi di costituire dei consorzi per la gestione della rete e di concentrare l’attività sulla fornitura dei contenuti. In effetti l’idea della gestione consortile delle frequenze, così come quella del “network operator regionale” proposto da Sassano, ha incontrato troppi ostacoli, non ultima la difficoltà degli operatori locali di dialogare ed implementare strategie comuni.

 

Le tv locali si sono dunque presentate, almeno la maggior parte di loro, all’appuntamento con il digitale con l’obiettivo di limitare i danni piuttosto che investigare nuove opportunità. Sempre che non si voglia comunque considerare un’opportunità, ancorché non da poco, l’incremento del valore delle frequenze in rapporto al moltiplicarsi degli interessi intorno alla televisione ed alle piattaforme fisse e mobili per veicolarne il segnale. E’, comunque, evidente, una volta messa in chiaro la vera mission del settore, che l’interesse a sperimentare, e quindi investire in innovazione tecnologica, sia per le emittenti assolutamente minimo. Peraltro rinnovare gli impianti, assumere personale qualificato in grado di gestire l’innovazione, e ripensare il proprio modello commerciale è tutto molto costoso, mentre la redditività che i nuovi modelli di business dovrebbero veicolare è assolutamente incerta ed eventualmente a medio-lungo termine. La situazione del settore locale è, infatti, ben diversa da quella dei network nazionali che hanno intravisto nell’avvio al digitale l’opportunità per estendere il proprio presidio anche a piattaforme alternative riprendendo, nel nuovo habitat, il controllo di quegli utenti che il multichannel gli stava lentamente rosicchiando nel tempo. No, le tv locali in termini di ascolti hanno solo da perdere dall’innovazione tecnologica, sempre che il brand di alcuni operatori non diventi tale da spingere una utenza fidelizzata verso servizi a pagamento, e che, quindi, l’emittente recuperi in formule pay quello che va perdendo in share e quindi investimenti pubblicitari.

 

E’ molto discutibile, inoltre, il legame che alcuni stabiliscono tra innovazione tecnologica e pluralismo. Il concetto di pluralismo nell’emittenza locale assume, innanzitutto, un significato peculiare rispetto al sistema televisivo nazionale, trattandosi di un settore nel quale convivono molti soggetti e molte anime, e per il quale, almeno da un punto di vista teorico, il pluralismo esterno ha da sempre sostituito il pluralismo interno. Eppure di questo tema si è discusso molto poco come se l’equazione fosse assodata e poco significativa. Che il digitale terrestre apra ulteriormente il settore abbassando le barriere all’entrata è, poi, tutto da dimostrare. La rete è, infatti, bloccata se non tramite compra-vendita di frequenze (non essendo stati liberati canali per nuovi operatori, come è stato fatto in altre nazioni), e così il versante della fornitura di contenuti, anche qualora si applicasse anche al locale la norma della cessione obbligatoria del 40% della capacità del multiplex di tv licenziatarie a content provider esterni (2). Il DTT non incrementa, quindi, necessariamente il numero dei soggetti, se non ai margini del sistema e comunque esterni al settore locale tradizionale (ad esempio le tv di strada, come verrà, più avanti, argomentato).

Se, quindi, alcune tv, specie quelle di maggiori dimensioni, hanno scelto di fare del digitale terrestre un’occasione di ripensamento delle proprie strategie e, soprattutto, di creazione di nuovi introiti (sono quelle che Salvatore, nel suo lavoro, chiama “tv avanguardia”), la maggior parte degli operatori si limita ad osservare l’orizzonte degli eventi (quelli più “tradizionalisti nell’individuazione del core businness aziendale”). Nuovamente, per il settore locale, la migliore difesa è l’immobilismo – mimetico.

 

Vanno, però, a questo punto segnalate due questioni, apparentemente in contraddizione tra loro.

La prima è che talvolta, da parte di una impresa, un atteggiamento “attendistico” è opportunamente strategico, specie nel momento in cui il mercato presenti un alto grado di incertezza. Il tanto entusiasticamente salutato arrivo dell’interattività, ad esempio, si è già rivelato molto più complesso del previsto, certo non quella “killer application” che, secondo molti, avrebbe rivoluzionato il mercato televisivo. Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto perché in effetti non c’è interattività se non c’è un canale di ritorno, e quest’ultimo passa attraverso una piattaforma, quella telefonica, diversa dall’etere, con una serie di problematiche connesse non indifferenti. La tecnologia è, inoltre, ancora molto arretrata, pochi i servizi veicolabili, complicati da usare, differenti – anche a livello di telecomando – i diversi sistemi in uso, per non affrontare, in questa sede, il nodo della compatibilità tecnologica con altre piattaforme. I promotori dei famosi “servizi”, più o meno a valore aggiunto, poi, destinati a diventare il cavallo di Troia per l’avvio al dtt locale, principalmente banche e amministrazioni locali, dopo una fase di iniziale entusiasmo si sono fermati anche loro a guardare alla finestra. E la Pubblica Amministrazione ha iniziato ad accarezzare l’idea di farsela da sola la televisione (anche se al momento è vietato dall’art.5 del Testo Unico della Radiotelevisione – dl 31 Luglio 2005 n. 177), abbracciando la tesi che il controllo della rete sia sempre la strategia vincente. C’è un problema, infine, ma non ultimo, legato alla domanda. Gli utenti non sembrano affatto interessati ad usare il digitale terrestre in modo interattivo e, secondo molti, l’interattività decollerà ma su network a banda larga che del canale di ritorno hanno fatto il proprio modello di business originale.

 

E questo introduce la seconda questione rilevante: il ruolo del fruitore. Se, infatti, come appena argomentato, l’interattività è una funzione ancora tutta da testare, è indubbio però che l’innovazione tecnologica e l’evoluzione del mercato televisivo hanno profondamente cambiato il pubblico nonché, al contempo, si sviluppano in un contesto in cui il pubblico è profondamente mutato, nei suoi bisogni e nelle sue modalità di consumo. La direzione è quella di una “appropriazione del mezzo”, rispetto al quale l’utente vuole avere sempre più voce in capitolo: lo vuole scoprire, manipolare e, perché no, produrre. Questo è il nodo. Se il cittadino vuole avvicinarsi alla tv fino quasi a toccarla se non a scomparirvi – o ad apparirvi! – dentro, cosa meglio della tv locale è in grado di realizzare questa funzione? Secondo alcuni, infatti, il vero business dell’emittenza locale nel prossimo futuro è quello di affittare i propri canali direttamente al pubblico, nonché utilizzare i servizi aggiuntivi per veicolare messaggistica, incontri etc. Sono forse queste, in realtà, le vere economie interstiziali sfruttabili dalle tv locali.

L’irrompere della domanda, della perimetrazione di ogni singolo consumatore per l’individuazione dei suoi bisogni più profondi e della rielaborazione delle strategie aziendali in funzione di questa nuova formula dell’utente principe e schiavo del mercato, costringe di rimando anche lo studioso a misurare su di lui i propri modelli di analisi e di categorializzazione. Questa è sicuramente una strada sulla quale anche la ricerca nell’ambito televisivo locale si potrebbe profiquamente impegnare.

 

 

Il Ciclo di Vita

 

Abbiamo già accennato ad alcuni punti di svolta nell’evoluzione del settore televisivo locale. E’ possibile, ora, provare a ripercorrere i tratti salienti dei suoi 30 anni di storia. Una possibile  periodizzazione  evidenzia cinque fasi principali.

La prima: da metà a fine degli anni settanta

E’ quella dell’incontro tra le istanze di rinnovamento, autonomia ed apertura portate avanti da larghe fasce del paese e lo sviluppo della piccola e media impresa in Italia: le parole d’ordine ” accesso” e “pluralismo” si intrecciano con “iniziativa privata” e “rifiuto dello stato”. E’ interessante come il settore rappresenti un microcosmo dell’Italia di quegli anni, percorsa da un forte desiderio di cambiamento che si articola in modalità profondamente diverse ma convergenti nella voglia di sperimentare ed “osare” e, soprattutto, di esprimere la propria voce, il proprio pensiero, la propria visione imprenditoriale differente dal mainstream nazionale. “Volere è potere” motiva i giovani che cercano nelle piccole radio e tv dei luoghi per esprimere modi di ragionare, amare e comunicare differenti da quelli dei loro padri: insomma persone mosse da obiettivi sociali e culturali; ma anche quanti, magari con qualche piccolo finanziamento familiare, entrano in questa industria nascente proiettandovi la possibilità di sperimentare nuove opportunità di fare business e una visione più moderna del lavoro.

Il problema, almeno per quel che riguarda il settore locale (il vulnus che si produce in quegli anni nella storia del paese esula dalla nostra analisi) è che l’intreccio tra queste diverse anime, quindi le radici sulle quali si va sviluppando il settore televisivo commerciale in Italia, non è figlio – come nella maggioranza degli altri paesi europei – di una riflessione collettiva ed approfondita sul fare televisione, comunicazione, in modo alternativo al monopolio pubblico, ma è solo il parto di diverse istanze di mutamento che non si concretizzano, però, in un compiuto progetto industriale né, tantomeno, in un collegato progetto sociale.

La programmazione in questi anni, principalmente di flusso, ricalca lo spirito dei primi operatori del settore, quel “tutto è possibile” che stimola ricerca e sperimentazione, l’innovazione nella tecnologia e nei linguaggi. I temi sono politici, religiosi, sociali e, più che sul territorio, centrati sulle esigenze, bisogni, ideali dei singoli cittadini e delle singole realtà, dalla fabbrica alla scuola.

La seconda: dalla fine degli anni settanta all’inizio degli anni ottanta

Alla fine degli settanta le cose vanno mutando perché entrano in crisi le televisioni “libere” e nello stesso tempo diventa evidente quanto fare tv richieda un elevato investimento economico perché costa la tecnologia e costa il tempo lavorativo. Appare, quindi, necessario sostituire ai flussi di coscienza o alle prime produzioni sperimentali dei palinsesti veri e propri: è il momento in cui i programmi Usa invadono l’Italia e diventano catalizzatori di ascolti e quindi di revenue, mentre le tv locali “veramente locali” perdono consenso e sopravvivono solo se a carattere comunitario o dipendenti da fonti di finanziamento alternative (chiesa, politica etc.).

Diviene, nel frattempo, ormai evidente l’interesse da parte dei grossi gruppi industriali del paese ad entrare nel settore radiotelevisivo privato. Si tratta, almeno in una prima fase, delle imprese editoriali già consolidate nel settore della stampa che intravedono nel settore una nuova fonte di introiti pubblicitari. Un gran numero di emittenti locali viene, così, assorbito dai nuovi circuiti che in breve tempo si trasformano a tutti gli effetti in network nazionali.

La terza: gli anni ottanta

All’inizio degli anni ottanta l’emittenza locale si ritrova depauperata di gran parte delle proprie energie confluite nel broadcasting nazionale che è stato, nel frattempo, abbandonato dagli editori puri; i nascenti network commerciali, infatti, nell’assenza di un progetto di politica industriale da parte del governo, trovano la loro massima efficienza in una guida che rinunci a fare i conti con una tradizione editoriale basata sull’informazione a tutti i costi e su prodotti di qualità. Una programmazione di qualità (in particolare le news) ha, infatti, costi non sostenibili e, inoltre, non rappresenta un’offerta complementare ma competitiva rispetto a quella del servizio pubblico. La tv commerciale si sviluppa, invece, come un business a tutti gli effetti, laddove la pianificazione del palinsesto fa parte di una strategia compiuta in funzione dell’avvio di un circolo virtuoso che ha nella massimizzazione degli ascolti e della pubblicità i suoi punti di forza. Ed i successivi intrecci tra mercato e politica non sono null’altro che figli di un bisogno di legittimazione che non trova altre strade per esprimersi.

Anche le emittenti locali – 250 circa quelle ‘sfuggite’ ai network nazionali, meno della metà dell’universo allora stimato in 636 soggetti – sono, principalmente, nelle mani di editori impuri, che le eleggono a strumenti di pressione e comunicazione locale; è interessante, e paradossale, che se le piccole tv, da una parte, nascono proprio sull’onda di un profondo antistatalismo, d’altro canto diventano, invece, luogo di mediazione e lobby verso gli organi statali nazionali e locali.

Dopo il periodo di incertezza legato al travaso di idee, uomini e diritti dalla tv locale a quella nazionale, la programmazione dell’emittenza locale è ormai sempre più snaturata del proprio valore primario e si deve accontentare dei fondi di magazzino mentre i prodotti di maggiore qualità, specie la fiction, sono cannibalizzati dai network nazionali. In questa fase gli elementi di forza dei palinsesti locali rimangono news, sport locali ed il porno.

La quarta: gli anni novanta

A caratterizzare il decennio degli anni ’90, per quanto riguarda il settore delle tv locali, è stata la mancata attuazione del regime concessorio previsto dalla legge 223/90 (la cosiddetta legge Mammì) – il primo tentativo di mettere ordine in un settore commerciale sviluppatosi “de facto” in assenza di una compiuta legislazione – contenente la disciplina che stabiliva i criteri per il rilascio delle concessioni, ossia quell’insieme di requisiti da possedere e di obblighi da rispettare per poter trasmettere in ambito locale (3). Era evidente già da allora la ratio del legislatore che poi segnerà gli interventi delle autorità di regolamentazione anche negli anni a venire: quella di alzare le barriere d’entrata al settore e stimolare quel processo concentrativo che avrebbe dovuto promuovere consolidamento ed efficienza. In realtà la mancanza di volontà “politica” nel far rispettare la legge ha impedito la piena realizzazione di un processo di razionalizzazione dell’emittenza locale, e mediante molteplici reiterazioni di decreti legge contenenti proroghe dei termini ultimi per il rilascio delle concessioni oltre i termini stabiliti, i vari governi succedutisi nel corso degli anni ’90 hanno mantenuto in vita un regime transitorio in base al quale quasi tutte le tv operative alla data dell’entrata in vigore della Mammì hanno ricevuto l’autorizzazione provvisoria a proseguire l’esercizio delle loro attività, anche se non collocate in posizione utile nelle graduatorie ministeriali.

Se, per le tv locali, quella precedente era stata la fase dello sbandamento, quella in cui il “settore per sottrazione” cercava di individuare la propria identità, gli anni novanta danno il via, invece, alla stagione del “mimetismo”. Gli operatori locali realizzano, infatti, che oltre alle incombenze tipiche a cui tutte le imprese devono sottostare (adempimenti burocratici, fiscali etc.), si trovano ora, con la nuova legge, improvvisamente a dover far fronte ad una lunga lista di obblighi, molti dei quali riguardano la programmazione. E ‘ qui che il radicamento locale delle emittenti, i loro rapporti con le amministrazioni pubbliche, gli agganci con la politica, diventano fondamentali per frenare eventuali accertamenti e interventi governativi; le autorità di controllo, inoltre, non hanno gli strumenti adeguati per verificare l’attività di un settore così sfuggevole e frammentario (4) e, di fatto, non intervengono. E’ così, in punta di piedi, sotto i riflettori della tv ma nello stesso tempo invisibile agli occhi dei più, che il settore attraversa gli anni novanta, perdendo per strada solo una piccola parte delle imprese che lo compongono (5), e ignorato dagli investitori pubblicitari (nonostante l’incremento degli introiti del settore da 160 a 265 miliardi di lire) (6) mentre andavano crescendo, invece, a vista d’occhio gli investimenti sulle tv nazionali (da 3.356 miliardi di lire nel 1990 a 6864 nel 2000).

la quinta: gli inizi del nuovo secolo

Una delle caratteristiche più evidenti della fase attuale dell’emittenza locale è una divaricazione molto forte tra il vertice ed il resto del settore. Tra le emittenti di maggiori dimensioni si assiste al rafforzamento degli editori puri (Parenzo, Ciancio) e ad un rinnovato interesse dei gruppi editoriali ad entrare o fare sinergie con il locale. Il resto del settore, invece, è profondamente frammentato e sull’orlo di scelte complesse e ineluttabili. Investire o non investire in innovazione è un problema, infatti, rilevante, nella misura in cui la prima opzione consente una vittoria in termini di posizionamento competitivo ma è rischiosa sul piano dell’incertezza relativa ai modelli di business da implementare a fronte di costi molto elevati, e la seconda rischia di escludere dalle nuove opportunità che il mercato potrebbe offrire quei soggetti che dovessero rimanere troppo indietro.

 

Il secondo grande interrogativo per le emittenti locali è come e quando vendere le proprie frequenze. Si è teorizzato, infatti, nel corso di questo lavoro, che l’investimento nella rete sia sicuro come quello nel “mattone”. In realtà, più del mercato immobiliare – attività dai difficili scossoni salvo possibili ma rare “bolle” – le frequenze, per quanto completamente abbandonate da 30 anni a questa parte nelle mani del mercato, sono comunque un bene soggetto a potenziali interventi governativi che potrebbero andare, per esempio, paradossalmente, nella direzione di riportare sotto il diretto controllo statale tutta la rete trasmissiva. Se oggi, inoltre, le frequenze analogiche sono un bene ancora molto prezioso, al centro delle strategie competitive degli operatori televisivi nazionali che passano al digitale e delle piattaforme telecom che rivolgono le loro attenzioni alla tv, specie quella ‘mobile’, domani, nell’incertezza di una industria in grande subbuglio e di scelte tecnologiche ancora tutte da testare, il loro valore potrebbe precipitosamente scendere. Questo significa che il rischio è elevato, specie per coloro che sono saltati sul carro dell’emittenza locale soprattutto per farne un investimento facilmente monetarizzabile. La tentazione di vendere è, quindi, in questo momento, molto forte, anche se l’esperienza insegna che interventi e mutamenti radicali in questo settore non sono mai venuti, né dallo stato né dal mercato, se si esclude il “grande tradimento” quando molte tv andarono a formare i network nazionali commerciali all’inizio degli anni ottanta.

 

In questo contesto la programmazione gode, paradossalmente, di un momento di grande vivacità. Se, infatti, a fronte di una forte incertezza nelle strategie da implementare, e a fronte dei consistenti costi della tecnologia, gli investimenti nel prodotto sono ridotti al minimo, è anche vero, però, che quel minimo va soprattutto verso programmazione originale autoprodotta, perché la nascita di un gran numero di nuovi canali nell’habitat multichannel ha sottratto alle locali anche i suoi storici ‘fondi di magazzino’. Il settore locale non è più, quindi, un secondo né un terzo mercato dei diritti, e trova più conveniente occupare i palinsesti con varietà o reality a basso costo, accanto ai tradizionali programmi di sport e news.

A chiusura di questo tentativo di periodizzazione c’è un ultimo tassello che va introdotto nel quadro, per illuminare il contesto nel quale si muovono le circa 600 tv locali attualmente operanti. Come è noto la convergenza e l’innovazione tecnologica hanno stimolato l’entrata nell’habitat televisivo di categorie di soggetti molto diversi tra loro, sia per dimensioni che per finalità che per caratteristiche. Questo si è verificato a livello nazionale, dove lo sviluppo delle reti via cavo e satellite ha promosso la nascita di nuovi editori, e tanto più a livello locale, con l’irrompere sulla scena di attori ricchi di energie, creatività, vitalità industriale. Si tratta dei comuni e delle province italiane, che hanno sentito l’urgenza – o intravisto l’opportunità economica – di avviare (o magari, ancora, solo progettare sulla carta) canali televisivi via internet, cavo, satellite o anche dtt . Delle tv di strada e di quartiere che rispondono ad una domanda di informazione molto localizzata ma, anche, e forse soprattutto, al bisogno di incontrarsi e “fare comunità”. Si tratta, infine, dei blog o vlog prodotti dagli stessi cittadini. E’ il locale medesimo che si “fa televisione”, assieme segnale della forza e dell’importanza del livello di comunicazione locale, decentrato, ma al contempo canto del cigno del settore locale “ufficiale”, della categoria imprenditoriale in quanto tale, della sua autorevolezza istituzionale. L’emittenza televisiva locale viene quindi travolta da un processo che si appresta, con tempi non immediati ma in modo irreversibile, a mutare l’intero settore televisivo comprensivo dei grandi network nazionali. Se l’audience fidelizzata da Rai piuttosto che da Mediaset, però, ci metterà del tempo a mutare le proprie abitudini per rivolgersi ad altri soggetti, ad altre piattaforme, ad altre modalità di consumo, i telespettatori del locale, strutturalmente legati ad un ascolto più casuale e mobile, si spostano con maggiore facilità verso nuovi stimoli ed orizzonti. Il settore televisivo locale perde quindi share ma, soprattutto, perde status quo, ruolo istituzionale, e lo perde proprio su quel terreno a lui più caro ma anche mai sufficientemente presidiato: il rapporto con il cittadino ed i problemi del territorio.

 

In breve: come risulta evidente da queste note, l’obiettivo della ricerca è di ricontestualizzare l’analisi costruendo un percorso che affronti il tema “tv locali” da diversi punti di vista e con diversi approcci disciplinari e metodologici. Si parte da quegli anni settanta nei quali le emittenti locali hanno perso la propria verginità e con questa anche il senso più profondo della propria identità (capitolo 1).

Ci si interroga, quindi, sul significato stesso di “locale”, e sulle declinazioni di questo concetto in Italia e in Europa (capitolo 2). Vengono poi messe sotto esame le opportunità offerte dall’innovazione tecnologica (capitolo 3) ed in particolare le potenzialità in termini di accesso e recupero di un dialogo con la propria utenza (capitolo 4).

Segue una analisi economica del settore che tenta, con l’ausilio dell’indagine su campo e di dati originali, di tirare le fila sulle prospettive dell’emittenza locale nei prossimi anni (capitolo 5).

Conclude il libro, infine, una riflessione sulle tendenze in atto nel settore e sugli strumenti di politica industriale nelle mani del regolatore.

   

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(1)  Va notato che tale suddivisione del palinsesto, un tempo funzionale a modellizzare la programmazione, è oggi quasi obsoleta nel momento in cui anche i prodotti di flusso sono editabili e riproponibili nella televisione post-moderna.

(2) La legge n. 66/2001 obbliga i soggetti titolari di più di una concessione televisiva a riservare su ciascun multiplex almeno il quaranta per cento dei programmi alla sperimentazione in tecnica digitale da parte di soggetti terzi (Legge 20 marzo 2001, n. 66, art. 2-bis, Comma 1). La norma non specifica, tuttavia, se la disposizione vada applicata indifferentemente a livello nazionale e locale e, per una più corretta interpretazione, appare necessario fare riferimento direttamente al regolamento relativo alla radiodiffusione in tecnica digitale, ovvero alla delibera dell’Agcom n. 435/01/CONS. Il regolamento specifica che i limiti previsti della legge n. 66/2001 per i titolari di più di una concessione televisiva sono transitori e validi solo fino alla conclusione della fase di avvio dei mercati (Delibera n. 435/01/CONS, art. 24, comma 5. I limiti previsti dall’articolo 2 bis, comma 1, quinto periodo, della legge n. 66/01 per i titolari di più di una concessione televisiva e quelli previsti al Capo VIII del presente regolamento per la concessionaria del servizio pubblico si applicano fino alla fine della fase di avvio dei mercati, termine a partire dal quale si applica il limite di cui al comma 1, lett. b.). A partire da questo termine, andrebbe applicato un altro limite che, in particolare, prevede l’impossibilità che vengano rilasciate autorizzazioni (in chiaro o criptate) ad uno stesso soggetto, o a soggetti fra di loro in rapporto di controllo o di collegamento, che consentano di irradiare più del 20 per cento dei programmi televisivi numerici; nel comma si precisa inoltre che questo limite fa tuttavia riferimento esclusivamente all’ambito nazionale (Delibera n. 435/01/CONS, Articolo 24 – Limiti alle autorizzazioni alla fornitura dei contenuti, comma 1 lett. B. Ad uno stesso soggetto o a soggetti fra di loro in rapporto di controllo o di collegamento […] non possono essere rilasciate autorizzazioni in chiaro o criptate che consentano di irradiare più del 20 per cento dei programmi televisivi numerici, in ambito nazionale). La lettura incrociata della legge n. 66/2001 con il regolamento relativo alla Tv digitale terrestre lascia quindi presumere che, pur se non esplicitamente dichiarato, la riserva del quaranta per cento dei programmi su ciascun multiplex da dedicare a soggetti terzi vada applicata soltanto ai soggetti titolari di più di una concessione televisiva in ambito nazionale, mentre per le imprese concessionarie a livello locale, in questa prospettiva, almeno nella fase di sperimentazione, non sono previsti limiti di alcun tipo.

(3) I requisiti previsti dalla legge n. 223/90 erano di tipo oggettivo e soggettivo: quelli di tipo oggettivo si riferivano alla figura giuridica dei titolari della concessione; quanto ai requisiti oggettivi, tra gli altri, veniva richiesto che almeno il 20% della programmazione fosse dedicato all’informazione locale. Altri requisiti sono stati introdotti dalla successiva legge n. 422/93, tra i quali quello riguardante l’esistenza di un rapporto continuativo di lavoro subordinato per almeno 3 dipendenti. Per quanto riguarda gli obblighi, la legge 223/90 prevedeva per i concessionari locali, sia il rispetto di quelli previsti per tutte le altre emittenti nazionali, pubbliche e private (per esempio il rispetto delle norme in materia di pluralismo, completezza e imparzialità dell’informazione; in materia di pubblicità e sponsorizzazioni), sia altri obblighi specifici per l’ambito locale (relativi al canone di concessione, al tetto pubblicitario – fissato al 20% orario e al 15% giornaliero – e alla quota minima di trasmissione giornaliera, pari a 8 ore nell’arco delle  24 ore e a 64 nell’arco della settimana).

(4) E’ emblematico che solo oggi i Corecom – cioè le autorità di regolamentazione decentrate sul territorio – inizino a dotarsi di apparecchi televisivi per poter registrare la programmazione delle emittenti locali.
(5) “Dall’approvazione della Legge Mammì nel 1990, il Ministero delle Comunicazioni (già Ministero PP-TT) ha rinnovato per tre volte gli elenchi con le graduatorie provvisorie, riducendo di volta in volta il numero delle emittenti collocate in posizione utile. Nella prima graduatoria, del 1992, erano state 809 le emittenti giudicate favorevolmente ai fini del rilascio della concessione (a fronte di circa 1.400 richieste pervenute al Ministero). Tuttavia, con la legge 482/92, erano state autorizzate a proseguire le trasmissioni anche le tv locali escluse dalla graduatoria che avevano fatto ricorso. A metà decennio le emittenti collocate in graduatoria risultavano 712 (più altre 81 che, avendo fatto ricorso, avevano ottenuto dal Tar l’autorizzazione per proseguire le trasmissioni), per un totale di 793 tv locali di cui 247 comunitarie. Nel 2001, infine, il numero di emittenti televisive titolate ad esercitare attività di radiodiffusione sono risultate 618, delle quali 475 emittenti commerciali e 143 emittenti comunitarie” (FLAVIA BARCA, ALESSANDRO D’ARMA, “Le televisioni locali” in CARLA BODO, CELESTINO SPADA (a cura di), Rapporto sull’economia della cultura in Italia, 1990-2000, Bologna, Il Mulino, 2004, 776 p. [pp. 543-553]).
(6) Le stime, di Tv Key, vanno considerare, per stessa ammissione della rivista, a solo titolo indicativo. Qualora si considerino anche gli introiti da televendita, dei quale non si ha alcuna stima ufficiale, i valori sono presumibilmente più elevati, pari, secondo alcune fonti, a circa 650 miliardi di lire nel 2000.

(7) Ed è interessante come oggi, con la volontà da parte delle Regioni e delle Province di mettere in piedi dei canali televisivi in proprio, si chiuda in qualche modo un cerchio apertosi in quegli anni settanta che salutarono il fallito legame tra i due soggetti. Se, infatti, alla nascita dell’emittenza locale, l’Amministrazione Pubblica rifiutò di farsene carico, economicamente ma, soprattutto, culturamente, dopo 30 anni decide addirittura di scavalcarla, escludendo definitivamente il settore locale dalle sue strategie.

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