Privacy: Google cede alle richieste della Ue. Scende a 18 mesi il periodo di retention

di Alessandra Talarico |

Unione Europea


Google

“Negli anni abbiamo fatto molto per proteggere le informazioni e la privacy dei nostri utenti: per esempio abbiamo resistito alle pressioni dei governi, abbiamo predisposto i nostri servizi per permettere agli utenti di scegliere tra servizi personalizzati e generali e di vedere e controllare quanti dati condividere con noi”.

Così Google si difende dalle accuse di essere un ‘nemico della privacy’ e annuncia di aver deciso di  rendere anonime le informazioni relative alle ricerche effettuate dai propri utenti dopo un periodo massimo di 18 mesi dai precedenti 24.

 

La decisione arriva dopo le polemiche innescate dalla lettera inviata ai vertici del primo motore di ricerca del mondo dal gruppo di lavoro ‘Articolo 29 , che riunisce i rappresentati degli organi nazionali Ue in materia di privacy, per sottolineare le preoccupazioni legate al fatto che Google memorizza queste informazioni per un periodo di tempo considerato troppo lungo e contrario alle leggi di molti paesi.

 

Alcuni giorni fa, inoltre, l’associazione Privacy International ha pubblicato uno studio relativo al rispetto della riservatezza dei dati da parte delle maggiori società internet.

La classifica, che segnala i migliori e i peggiori performers sia Web 1.0 che Web 2.0, ha assegnato a Google la maglia nera in fatto di tutela della privacy.

Una decisione – ha spiegato PI – che potrebbe sembrare molto discutibile, ma dettata dalla rilevazione di “numerose carenze e ostilità nell’approccio di Google” nelle diverse categorie analizzate. Elementi negativi che vanno ben al di là di quelli riscontrati in altre società – come Microsoft o eBay – e fanno raggiungere a Google lo status di “minaccia endemica per la privacy”.

 

Questo è in parte dovuto alla diversificazione e alla specificità della gamma prodotti della società di Mountain View e alla capacità della compagnia di condividere i dati tra questi strumenti, ma anche alla posizione dominante di Google sul mercato e alla enorme estensione della sua base utenti.

 

La posizione di Google in classifica è però anche causata dall’uso aggressivo di “tecnologie e tecniche invasive o potenzialmente tali” e da un atteggiamento verso l’argomento sfacciato e ambivalente.

 

L’associazione stigmatizza in particolare alcune pratiche comunemente utilizzate da Google: innanzitutto quella di costringere gli utenti ad accettare delle condizioni che permettono alla società di conservare e utilizzare un gran numero di informazioni personali per un periodo indefinito, senza chiare limitazioni sull’utilizzo che viene ne fatto e senza l’opportunità di rimuovere i dati quando si decide di non utilizzare più un determinato servizio.

 

La società – attraverso i profili registrati alla community Orkut – ha poi accesso ad ulteriori informazioni personali degli utenti (hobbies, occupazione, indirizzo, numeri telefonici). Dati conservati anche dopo che l’utente cancella il suo profilo dal sito.

 

Tutti i risultati di ricerca ottenuti attraverso la toolbar vengono poi registrati e la società ha la possibilità di identificare ogni singolo utente attraverso un cookie che permette di risalire a tutti i movimenti fatti online, senza la possibilità di sapere né per quanto tempo le informazioni vengono mantenute né di essere escluso dalla registrazione.

 

A ciò si aggiungono anche i dubbi relativi alla recente acquisizione della società di pubblicità DoubleClick, in seguito alla quale l’associazione EPIC ha inviato una lettera alla FTC per chiedere maggiore attenzione alla tutela della privacy dei cittadini alla luce dell’accordo, che permetterebbe a Google di attuare un monitoraggio ancora più estensivo, con conseguenze disastrose per la riservatezza di dati degli oltre 1,1 miliardi di utenti internet.

 

Se Google piange, Microsoft non ride: la società di Bill Gates ha ottenuto un piazzamento migliore di Google in classifica, ma solo di due ‘gradazioni’ – quella d Microsoft è arancione e corrisponde allo status di “serie mancanze nelle attività relative alla privacy” – e per onor di cronaca è importante sottolineare che il servizio Windows Live Space ha ricevuto un ranking più critico rispetto a Orkut – status ‘red’: “concreta e ampia minaccia per la privacy”.

 

C’è una sostanziale differenza però tra le due società – ha spiegato PI – che non sta tanto nelle prassi di raccolta e conservazione dei dati o nelle politiche relative alla tutela della privacy, quanto nell’etica aziendale e nella leadership, intesa come elemento che stabilisce se una compagnia svolge un ruolo di rilievo nella protezione e nella promozione della privacy.

Cinque anni fa, infatti, anche Microsoft poteva ragionevolmente essere descritta come un pericolo per la privacy, ma più di recente il gruppo ha adottato un approccio meno antagonista e ha fatto molti passi avanti nella creazione di un ambiente ‘privacy-friendly’.

È altrettanto vero che spesso il gigante di Redmond non ha raggiunto i livelli di trasparenza che proclamava di abbracciare, ma almeno – ha aggiunto PI – la società ha avviato la realizzazione di una strategia e di una corporate vision improntati a una migliore tutela della riservatezza dei dati personali, dando dimostrazione di essere diventata più matura col passare degli anni e di volersi veramente distinguere sul campo attraverso l’adozione di policy particolarmente attente alla privacy.

 

Google però non ci sta, e sottolinea che anche dal gruppo di lavoro europeo riconosce l’impegno che la società sta profondendo per la tutela della privacy.

“Internet è un medium globale e  principi in ballo – privacy, sicurezza, innovazione, obblighi legali a conservare i dati – hanno un impatto che va oltre l’Europa e al di là della sfera della prìvacy”, ha spiegato la società sul blog ufficiale, sottolineando che questi principi “sono a volte in conflitto: mentre un periodo di conservazione dei dati breve è un bene per la privacy, periodi più lunghi sono richiesti per motivi di sicurezza, innovazione e conformità alla legge”.

 

Google, che si dice sicura di aver raggiunto un giusto equilibrio tra questi diversi fattori, sostiene che il mantenimento dei dati per un periodo non inferiore a 18 mesi è essenziale per diverse ragioni tra cui la necessità di migliorare continuamente gli algoritmi di ricerca, di difendere i sistemi da accessi maliziosi, di combattere lo spam, di proteggere gli utenti da frodi e phishing, di combattere la pedopornografia e di osservare gli obblighi legali sul mantenimento dei dati.

Necessità che non possono essere garantite con periodi di retention inferiori a un anno e mezzo.

 

Google ha anche spiegato di stare lavorando a nuovi modi per ripensare la scadenza dei cookie senza dover costringere gli utenti a reintrodurre le preferenze basic come la scelta della lingua.

 

Tornando al rapporto di PI, l’associazione si è detta anche consapevole del fatto che la crescente enfasi verso il mercato della pubblicità online, che ha scatenato una nuova guerra tra i giganti de web, potrebbe spingere Microsoft ad abbandonare queste riforme in favore di maggiori introiti.

 

Google e Microsoft, ovviamente, fanno più rumore per la portata globale dei rispettivi business, ma è anche da dire che nessuna delle società prese in esame dallo studio ha ottenuto il ‘green status’: anche le compagnie meglio classificate, infatti, presentano aree di inefficienza facilmente evitabili a dimostrazione del fatto che spesso si presta semplicemente poca attenzione al problema della tutela della privacy.

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