Quando la libertà di informazione si trasforma in ‘gogna mediatica’. E se ricominciassimo da Zavoli?

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Riportiamo di seguito l’intervento di Franco Del Campo, Presidente Corecom FVG, in occasione del Convegno 'Presunto colpevole', che si è tenuto lunedì 26 marzo a Villa Chiozza, Scodovacca di Cervignano (Udine).

Italia


Franco Del Campo

Etica della comunicazione e regole dimenticate

 

Tempo per riflettere

L’idea di realizzare un convegno – con un titolo volutamente paradossale e straniante come “Presunto colpevole” – è nata dall’incontro di due diversi punti di vista, quello del Corecom FVG, che è organo di “governo, di garanzia e di controllo del sistema delle comunicazioni che abbiano rilevanza locale” (legge regionale 11/2001), e l’Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia, che è – tra l’altro – un organo di autogoverno (legge 69/1963), che garantisce il corretto esercizio deontologico della professione giornalistica.

L’obiettivo del convegno è quello di fermarsi un istante e prendere un po’ di tempo per riflettere e soprattutto mettere a confronto e far discutere rappresentanti autorevoli del mondo del giornalismo, della giustizia, dell’università, della politica e della pubblica amministrazione, sul rapporto tra media e cittadini.

Un rapporto che non di rado rischia di travolgere chi – a vario titolo – entra nel “circo mediatico”, o viene esposto – come si dice ormai abitualmente – alla “gogna mediatica” fino ad arrivare – come è stato detto autorevolmente – a forme di “barbarie mediatica”.

Oggi vorremmo riflettere e discutere al di fuori di ogni forma di “emergenza mediatica”. Naturalmente non potremo prescindere dalle discussioni dettate dalla cronaca di questi giorni, ma vorremmo raggiungere anche una prospettiva più ampia, che permetta di dare una cornice di riferimento comune.

 

Mostri preconfezionati

Ripartiamo dal titolo del convegno di oggi: “Presunto colpevole”. Si tratta, evidentemente, di un rovesciamento preoccupante e paradossale rispetto a un dei cardini del diritto e della nostra civiltà che si fonda, invece, sul principio di innocenza.

Questo principio – a causa dell’intreccio a tratti perverso tra giustizia, media e politica – rischia di essere rovesciato nel nostro paradossale “presunto colpevole”.

Semplificando al massimo – da quasi ex giornalista – direi che il presunto colpevole si concretizza ogni volta che si “sbatte il mostro in prima pagina”, quando si sintetizzano lunghe indagini, processo e condanna con un’immagine, una foto o un titolo.

Non si tratta di una novità. E’ sempre avvenuto (ricordiamoci di Girolimoni, il “mostro” di Roma [1]), solo che una volta la forza dei media (anche quando c’erano le “veline” del fascismo, come nel caso di Girolimoni) era straordinariamente ridotta rispetto ad oggi. I “mostri” sbattuti sulle prime pagine (come il bullismo giovanile del resto) ci sono sempre stati; quella che è cambiata è la tecnologia e la dimensione quantitativa degli strumenti di comunicazione ed informazione, che sono diventati globali e di massa.

Questo convegno parte da un’osservazione: in questi ultimi anni e in particolare in questi ultimi mesi sembra aumentata la “densità mediatica” dei presunti colpevoli, dei mostri preconfezionati da sbattere in prima pagina.

L’elenco potrebbe essere lungo, ma abbiamo superato il crinale e ora stiamo precipitando verso il baratro della “barbarie mediatica” dopo il terribile omicidio della madre e del fratellino ad opera della giovane (allora minorenne) Erika e del suo fidanzatino Omar (2001).

I primi ed immediati “presunti colpevoli”, tanto plausibili da essere denunciati non a caso dalla stessa Erika, furono degli albanesi o dei nomadi. Poi si è scoperto che le cose non stavano così.

 

Il “mostro perfetto”

Ma veniamo agli esempi più recenti, di questi ultimi mesi.

Chi si ricorda dell’imprenditore Angelo Cottarelli, ucciso misteriosamente nella sua casa con moglie e figlio a Brescia (2006). Anche lì la ferocia dell’esecuzione aveva aperto la caccia prima agli extracomunitari, poi a dei siciliani e solo dopo si è scoperto che gli assassini erano dei suoi ex soci.

L’esempio paradigmatico di “presunto colpevole” contemporaneo è esploso con la strage di Erba (provincia di Como). Il primo ad essere immediatamente accusato è Azouz Marzouk, che ha le seguenti caratteristiche: è un extra comunitario, algerino (anzi, magrebino), è un pregiudicato, già in carcere per ragioni di droga ed uscito per l’indulto. E’, in modo del tutto geometrico, il “mostro perfetto”, da indicare al linciaggio popolare, mediatico e anche politico (cito il titolo di un quotidiano nazionale che li sintetizza tutti: “Stermina la famiglia. Era libero per l’indulto” [2]). “Purtroppo” Azouz Marzouk ha un alibi di ferro (era in Algeria al momento del massacro) che lo scagiona del tutto (i veri colpevoli sono i coniugi Angela Rosa Bazzi e Olindo Romano, che abitano nello stesso condominio).

 

La vicenda terribile di Erba (2006) ha però un altro risvolto che può interessare la nostra riflessione odierna. Azouz Marzouk non solo chiede le scuse della comunità di Erba (e le ottiene), delle forze politiche che avevano cavalcato l’accusa (e non so se le ha ottenute) e un risarcimento danni di un milione di euro (non so se lo otterrà), ma ottiene di sicuro un clamoroso risarcimento mediatico. Viene intervistato più volte da Matrix, vende le foto del funerale di moglie e figlio all’agenzia di Corona e sembra avere – come afferma qualche esperto del settore – “un gran futuro” nella scuderia di Lele Mora [3].

 

L’altro caso – clamorosamente doloroso – è più vicino a noi; riguarda l’eterna indagine su “unabomber” e in modo particolare sull’ingegner Elvio Zornitta (2006-2007).

Il castello di accuse nei suoi confronti, costruito anche con il contributi di esperti dell’FBI, disegna un altro “mostro perfetto”: l’ingegner Zornitta viene descritto, come ogni colpevole che si rispetti, freddo ed impassibile, “con gli occhi di ghiaccio”.

E’ curioso e significativo che la sua descrizione sia quasi simmetrica rispetto a quella di un altro “mostro perfetto”, Pietro Valpreda, accusato innocente della strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969).

Valpreda era stato descritto come un “mostro disumano”, “personaggio ambiguo e sconcertante”, definitivamente colpevole in quanto “ballerino anarchico”.

Zornitta, secondo i medesimi schemi narrativi, ha la colpa di essere un “ingegnere cattolico” con l’implicito rischio di incorrere nella “tipica degenerazione della religione in una spiritualità fatta di ossessioni, di manie e di deliri narcisistici” [4].

Il colpo di grazia al “presunto colpevole”, da parte della efficientissima “fabbrica di mostri”, viene dato quando si scopre e/o si fa emergere che l’indagato nasconde nel suo computer delle foto pedofile. E’ solo a questo punto che l’impassibilità di Zornitta (che è tuttora indagato) si incrina e afferma “così mi uccidete” [5]. La sfuggente accusa di pedofilia è condivisa -forse pochi se ne ricordano – con Paolo Onofri,  padre del piccolo Tommaso, esposto al pubblico ludibrio quando le indagini brancolavano ancora nel buio.

 

Corto circuito mediatico

Gli esempi, clamorosi, potrebbero continuare, ma è proprio la recente densità mediatica di mostri sbattuti in prima pagina in questo periodo che deve essere analizzata.

Improvvisa “brama di scoop dei giornalisti, libero sfogo di istinti forcaioli?”, si è chiesto recentemente Andrea Filippi, direttore del Messaggero Veneto [6].

Personalmente credo che sia quasi doveroso parlar male dei giornalisti, perché vale sempre la vecchia battuta: “non dite a mia madre che faccio il giornalista, lei crede che faccia il pianista in un bordello…”, ma sono davvero colpevoli? No, almeno questa volta no, perché si sono limitati a riportare “semplicemente frasi – risponde Filippi – rigorosamente virgolettate, pronunciate dai magistrati che si occupano dell’inchiesta” [7].

Questo significa che per i giornalisti, anche per i più accurati, diventa sempre più difficile fare bene il proprio lavoro quando autorevoli “fonti ufficiali” anticipano giudizi e forniscono su un piatto d’argento l’identikit di “presunti colpevoli”.

 

Allora, cosa sta succedendo?

A mio avviso stiamo vivendo una sorta di corto circuito mediatico anche all’interno del sistema giudiziario. Anche chi ha la responsabilità delicatissima di svolgere le indagini sembra condizionato dalla fretta di arrivare alle conclusioni, di indicare un colpevole al grande pubblico in tempo per la chiusura dei giornali o dell’ultimo telegiornale. Ma sarebbe davvero preoccupante se anche il sistema giudiziario si adeguasse ai ritmi televisivi (è già successo nello sport, nel tennis e nel volley, “accorciati” per esigenze di palinsesto televisivo, ma qui la valenza culturale e sociale è del tutto diversa), invece di mantenere fermo il metodo analitico, lento, silenzioso, meticoloso, che è il fondamento di ogni lavoro ben fatto per arrivare a risultati veri (e non solo presunti).

La fretta di arrivare a risultati clamorosi, attraverso facili scorciatoie, porta quasi sempre – nella vita, nello sport, nella giustizia – a risultati “dopati”, che creano inevitabilmente dei “mostri”.

 

La fretta del Garante

Che fare, allora, in questo sistema dell’informazione che sembra ormai privo di punti di riferimento? Che fare, in un sistema in cui il controllo delle fonti diventa un lusso che – ormai – pochi possono permettersi? Che fare di questo sistema che si imbarbarisce e si configura sempre più come una globale “gogna mediatica”? E’ utile e necessario imporre nuove regole?

Lo ha fatto in tutta fretta il Garante della privacy, per impedire la pubblicazione delle foto (poi avvenuta lo stesso) di un autorevole personaggio politico, ma in ritardo per tutelare “l’onore” di giovani e belle ragazze, a loro volta vittime e carnefici di un sistema che misura il successo quasi esclusivamente sull’esposizione mediatica (Mauro Paissan, componente del Garante, ha ammesso che il ritardo è stato una “grande, imperdonabile ingenuità politica” [8].

 

Condannati ad apparire

Forse è proprio questo il nucleo profondo della riflessione da fare. L’esposizione mediatica, come misura del successo nello spettacolo, nella politica, nell’informazione e adesso anche (ma anche questa non è una novità) nel sistema della giustizia[9], può essere una chiave interpretativa essenziale per spiegare e comprendere la genesi della “barbarie” che ora gli stessi politici denunciano.

Ma i politici, anche quando diventano “vittime” di un sistema che “sbatte il mostro in prima pagina”, hanno delle responsabilità profonde.

La politica è diventata artefice e complice – soprattutto a livello nazionale – di un sistema che contamina informazione e spettacolo, e quindi mescola pubblico e privato. Inutile, allora, lamentarsi e/o protestare se si cade nella “gogna mediatica”, quando la politica è condannata ad apparire sempre e comunque, quando indulge e si espone partecipando – ad esempio – al nuovo format (tecnicamente piuttosto approssimativo) denominato “l’isola dei politici” all’interno del programma “Quelli che…” [10].

La politica (magari evitando di chiedere favori e “complicità” al servizio pubblico televisivo) prima di lamentarsi e /o protestare, potrebbe iniziare a rispettare le regole che si è data (vedi il citato “atto di indirizzo” della Commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radiotelevisivi -11 marzo 2003- in cui si raccomanda di evitare “la presenza di esponenti politici nei programmi di intrattenimento”).

 

La frammentazione del “villaggio globale”

E i media? Che ruolo e/o responsabilità  hanno in questo “imbarbarimento”?

E’ ovvio che i media – e i giornalisti in particolare – non sono innocenti, anzi sono “colpevoli a priori”, ma è anche vero che lo sviluppo tecnologico ha dilatato la funzione dei media ed ha reso ancora più complesso il rapporto tra “realtà” e “notizie”.

Per chi opera in un “villaggio globale” sempre più frammentato è sempre più difficile ordinare e controllare un enorme flusso di notizie, di storie e di immagini che “devono” essere spettacolari, la necessità che ogni editore ha di “conquistare” (o non perdere) fette di pubblico, espongono il giornalista alla tentazione di giungere rapidamente a conclusioni clamorose e/o facilmente “vendibili”.

D’altra parte, come abbiamo visto, anche le fonti più autorevoli – come quelle giudiziarie – diffondono notizie riguardanti procedimenti penali che possono rischiare di far “sbattere il mostro in prima pagina”, salvo clamorose marce indietro, che rimediano solo in parte il danno ma soprattutto vanificano il principio costituzionale della “presunzione di innocenza”.

Come ristabilire, allora, responsabilità e ruolo dei mass media nell’acquisizione e nella verifica delle notizie? Come evitare che si instauri un ingranaggio mediatico – giudiziario che schiaccia i “presunti colpevoli”? Abbiamo davvero bisogno di ulteriori interventi – che secondo alcuni sono stati “ad personam” – da parte del Garante per la protezione dei dati personali?

 

Prima di tentare di rispondere (anche se le vere risposte verranno dalle relazioni e dal successivo dibattito) vorrei distinguere almeno tre categorie di cittadini che dobbiamo tenere come punto di riferimento: i cittadini comuni (praticamente tutti); chi vive, lavora o vorrebbe lavorare nel sistema dello spettacolo (o dell’informazione, che ormai sta diventando quasi lo stesso); il mondo della politica.      

 

La ricerca della visibilità

Partiamo dal “termine medio”. Chi vive, lavora o vorrebbe lavorare nel sistema dello spettacolo deve necessariamente “esporsi” al pubblico (di solito alle giovani donne si chiede anche di “scoprirsi”), e quindi tende alla spasmodica ricerca di visibilità e spesso è disposto a (quasi) tutto pur di apparire.

La “gogna mediatica”, così, diventa quasi un rischio professionale. E poi secondo una logica che fa corrispondere meccanicamente il successo alla quantità di apparizioni (ovviamente televisive), poco importa la “qualità” delle apparizioni (si può dire, parafrasando Voltaire: “apparite, apparite, qualcosa rimarrà…”), perché alla fine tutto viene monetizzato.

I politici – è stato già detto, ma credo inutilmente – dovrebbero spezzare il rapporto di dipendenza ed inquinamento con il mondo dello spettacolo.

Dovrebbero liberarsi dalla dittatura di “mostrarsi” sempre e comunque, per non diventare – quando si fa “una stupida deviazione di un percorso di una sera di mezza estate” o si selezionano in modo improprio le aspiranti veline del servizio pubblico – dei “mostri da sbattere in prima pagina”.

Del resto anche il Garante per la protezione dei dati personali (privacy) sostiene che i “personaggi noti godono di una minore tutela in termini di riservatezza, ma solo quando la notizia riguardante la loro vita privata ha un rapporto diretto con il loro ruolo pubblico” [11]

Ma è il comune cittadino, prima del personaggio pubblico, a dover essere al centro della nostra attenzione. Lo sostiene anche il Garante [12], in tempi non sospetti (6 dicembre 2005), prima del frettoloso intervento di questi giorni, che ha indotto molti rappresentanti della stampa – in modo rigorosamente bipartisan – a parlare di censura.

 

Un “piccolo” episodio pieno di dolore

I cittadini comuni fanno meno “audience”, salvo quando entrano nel “circo mediatico” per avvenimenti eccezionali e più spesso drammatici.

Gli esempi potrebbero essere molteplici, ma mi limito a un solo brevissimo esempio accaduto nella nostra regione. Un “piccolo” episodio pieno di dolore: la morte di una giovane donna. Ecco la successione della super sintesi apparsa sulle locandine:

 

1.”Triestina morta a Cervignano: indagato l’amico” (che viene immediatamente sottoposto a un “provvedimento di custodia cautelare” [13])

2.”Triestina morta in Friuli: non è omicidio” (ma l’amico rimane accusato di lesioni [14]).

3.”Monica uccisa da una gastrite, scarcerato l’amico” (perché l’accusa di lesioni è incompatibile con l’arresto [15]).

Un piccolo episodio che si esaurisce nello spazio di tre giorni, ma il dolore e i diritti di questi “cittadini comuni”, sfortunati e sofferenti, dovrebbero essere uguali a quelli dei “personaggi noti” …

 

Ma davvero abbiamo bisogno di nuove regole, di nuove proibizioni che suscitano reazioni infastidite da parte dei giornalisti?

Il Garante della privacy ha già dettato da tempo le regole che i giornalisti sono tenuti a rispettare e che del resto fanno parte integrale del loro/nostro codice deontologico:

  • divieto di ritrarre persone in manette [16];

  • dovere di anonimato riguardo ai minori coinvolti in processi penali;

  • obbligo di non rivelare l’identità delle vittime di violenza sessuale.

E poi i giornalisti dovrebbero attenersi all'”essenzialità dell’informazione” evitando:

  • citazioni, foto ed immagini che “possono ledere l’interessato”,

  • di dare informazioni che riguardino razza, religione, opinione politiche, sesso, condizioni personali, fisiche o mentali,

  • la diffusione di elementi “particolari inutilmente scabrosi” [17].

Tra etica e tradimento

E i giornalisti? C’è qualcuno che ha tradito, qualcuno ha fatto la spia e ha svenduto la sua professione, qualcuno ha dato un’immagine della professione ossequiosa al volere dei politici, ma la grande maggioranza dei giornalisti cerca di fare con dignità una professione sempre più logorata dalla tecnologia e che sta perdendo il suo fascino originario.

E allora, come facciamo a tutelare la libertà di informazione e, nello stesso tempo, i diritti dei cittadini (soprattutto di quelli piccoli piccoli)?

 

Senza anticipare le conclusioni che scaturiranno dalle relazioni e dal dibattito, vi propongo l’opinione di un “grande vecchio” del giornalismo italiano come Sergio Zavoli [18].

“Contro la tentazione di scrivere decaloghi, di istituire giurì, occorrerà battersi perché si affermi, all’interno della professione, non la cultura della perentorietà, ma quella della dimostrazione, della pacatezza e non del cipiglio, del servizio e non della missione. Il punto di equilibrio va ricercato non in una legge, ma nell’etica professionale del giornalista. Tutto il resto è chiacchiera, declamazione, enfasi e moralismo un po’ d’accatto”…

E se ricominciassimo da Zavoli?

 

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I video del convegno ‘Presunto colpevole’

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1. La vicenda è raccontata in “Girolimoni, il mostro di Roma”, un film di Damiano Damiani con Nino Manfredi, e si riferisce alla vera storia di Gino Girolimoni, fotografo, che nella Roma degli ultimi anni ’20 fu arrestato con grande clamore dei giornali come assassino di bambine e poi scarcerato di nascosto per mancanza di prove. Fu lo stesso Mussolini ad ordinare il silenzio stampa a un caso che non fu mai chiarito.
2. “Il Corriere della sera”, pag. 8, 12 dicembre 2006.
3. Vale per tutti l’articolo di Repubblica, “Erba, Marzouk chiede un milione di euro. I media mi hanno diffamato”, del 9 febbraio 2007.
4. le citazioni sono tratte da un’analisi critica di Francesco Merlo su la Repubblica del 26 gennaio 2007.
5. La Repubblica 27 settembre 2007.
6. “Da un mostro all’altro” di Andrea Filippi sul Messaggero Veneto del 19 gennaio 2007.
7. Ibidem.
8. “La Repubblica”, pag. 32, 20 marzo 2007.
9. Al di là dei meriti che ha avuto la magistratura nello scardinare il sistema di corruzione che aveva inquinato (e secondo alcuni continua ad inquinare) l’Italia, “Tangentopoli” ha dilatato il protagonismo mediatico di operatori della giustizia. E’ sempre più diffusa, infatti, la consuetudine sui giornali di pubblicare le foto di magistrati artefici di un’inchiesta, qualche volta con un effetto di straniamento, per cui bisogna leggere con attenzione il testo dell’articolo, per capire se la foto in oggetto è dell’imputato o del magistrato.
10. Il Corecom FVG, in data 25 settembre 2007, ha segnalato al Presidente della Commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radiotelevisivi, on. Landolfi, che a nostro avviso nel servizio pubblico non viene rispettato l’ “atto di indirizzo” della stessa Commissione (11 marzo 2003) in cui si raccomanda di evitare «la presenza di esponenti politici nei programmi di intrattenimento» in modo di non dare «la sensazione che il carattere pubblico del servizio consista nella simbiosi con la politica». L’unica eccezione alla regola è concessa nel caso che questo o quel politico abbia «particolare competenza e responsabilità» sugli argomenti trattati. A tutt’oggi non abbiamo ricevuto alcuna risposta.
11. L’intervento è di Mauro Piassan, componente del Garante, negli atti del convegno promosso dalla Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei sistemi radiotelevisivi e dal Garante per la protezione dei dati personali, a Palazzo Montecitorio, il 6 dicembre 2005, pubblicati a cura della camera dei Deputati, pag. 15.
12. Ibidem, pag. 11.
13. Il Piccolo, pag. 21, primo marzo 2007.
14. Messaggero Veneto, prima pagina, 2 marzo 2007.
15. Messaggero Veneto, pag. 19, 3 marzo 2007.
16. A questo riguardo il Garante della privacy ha rilevato molte violazioni, relative anche alla pubblicazione di foto segnaletiche, denunciando “la volontà di autopromozione mediatica di determinati magistrati e di determinati esponenti delle forze dell’ordine fa di queste foto una moneta di scambio con i giornalisti a loro volta desiderosi di notizie”, negli atti del convegno promosso dalla Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei sistemi radiotelevisivi e dal Garante per la protezione dei dati personali, a Palazzo Montecitorio, il 6 dicembre 2005, pubblicati a cura della camera dei Deputati, pag. 17.
17. Il richiamo è al caso di Lapo Elkan, negli atti del convegno promosso dalla Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei sistemi radiotelevisivi e dal Garante per la protezione dei dati personali, a Palazzo Montecitorio, il 6 dicembre 2005, pubblicati a cura della camera dei Deputati, pag. 14.
18. “Comunicare senza regole? Etica e mass-media nella società globale”, pag. 159, a cura di Graziano Lingua, Edizione Medusa, 2002.

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