Cresce internet ma anche la censura. Fa discutere il processo al blogger egiziano Karim Amer

di Alessandra Talarico |

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Censura

Mentre il mondo continua a decantare le lodi di internet quale strumento di comunicazione unico, in grado di contribuire alla diffusione della democrazia attraverso una maggiore trasparenza e circolazione delle informazioni, sono ancora tantissimi i governi che arrestano gli utenti non allineati ai loro dettami, chiudono gli internet café, sorvegliano le chat room, sottopongono i motori di ricerca a una rigida serie di filtri alla ricerca di contenuti ‘sensibili’.

  

Lo scorso anno, denuncia Reporters sans Frontierès, sono state arrestate 60 persone per aver fatto circolare in rete idee ritenute sovversive. Alla Cina, ancora una volta, il triste primato, con 50 arresti, altre 4 persone finite in manette in Vietnam, 3 in Siria e 1 in Tunisia, Libia e Iran.

  

Ma non sono solo questi i Paesi nemici di internet: Amnesty International denuncia ad esempio il caso del blogger egiziano Karim Amer.

Amer rischia fino a 10 anni di carcere con l’accusa di aver diffuso su internet “informazioni lesive dell’ordine pubblico e dannose nei confronti della reputazione del paese”, di aver “incitato all’odio verso l’Islam” e di aver diffamato il presidente della Repubblica.

  

Un processo che, secondo Amnesty, ha il sapore di un avvertimento nei confronti di chi pensa di poter criticare liberamente il governo sul web e farla franca.

Le informazioni scomode, denuncia Malcolm Smart, si riferiscono alle continue violazioni dei diritti umani, “come la tortura e la violenza della polizia durante le manifestazioni pacifiche”.

  

Amnesty definisce Amer un ‘prigioniero di coscienza‘. Come lui, purtroppo, sono tante le persone processate solo per aver espresso pacificamente le proprie opinioni – per quanto invise al governo – sul web.

  

Amer, spiega l’associazione, era già stato arrestato nel 2005, per 12 giorni, per aver postato sul suo blog, karam903.blogpot.com, commenti sull’Islam e sulla violenza religiosa esplosa nel quartiere di Maharram Bek, ad Alessandria, dopo che in una chiesa copta era stato proiettato un video ritenuto anti-islamico.

  

Uscito di prigione, spiega Amnesty, “Amer venne espulso dall’università per aver usato ‘espressioni blasfeme’ nei confronti dell’Islam e a novembre, sempre su iniziativa delle autorità religiose dell’università, il pubblico ministero di Maharram Bek aveva ordinato il suo arresto, fino all’apertura del processo. Durante il periodo di detenzione, Amer è rimasto in isolamento e ha potuto vedere i suoi familiari solo la settimana scorsa”.

  

Il processo è iniziato il 18 gennaio di fronte al tribunale di Maharram Bek, ad Alessandria. Amer deve rispondere di violazione degli articoli 102, 176 e 179 del codice penale, norme che Amnesty International chiede da tempo al governo del Cairo di abolire in quanto, in violazione degli standard internazionali, prevedono pene detentive “per il mero esercizio dei diritti alla libertà d’espressione, pensiero, coscienza e religione”.

  

Le maggiori web company che fanno affari nei paesi più repressivi – Arabia Saudita, Bielorussia, Birmania, Siria, Tunisia, Turkmenistan, Vietnam, Corea del Nord, Cuba, Egitto, Iran, Turkmenistan e Uzbekistan – nei giorni scorsi, hanno deciso di cooperare con le associazioni a difesa dei diritti umani e della libertà di stampa per realizzare un codice di condotta atto a proteggere la libertà di espressione e la privacy dei loro utenti.

  

Tra gli altri, Microsoft, Google, Yahoo! e Vodafone mirano a realizzare un documento entro la fine dell’anno per contribuire a bloccare spiacevoli fenomeni quali l’arresto di giornalisti, il tracciamento delle attività online dei cittadini e la censura dei contenuti.

  

“Le web company – ha spiegato Leslie Harris, direttore esecutivo del Center for Democracy and Technology – hanno svolto un ruolo vitale nel fornire importanti strumenti di riforma democratica nei Paesi in via di sviluppo, ma alcuni governi hanno trovato la maniera per usare la tecnologia contro i cittadini, monitorando le attività online legittime e censurando le informazioni sulla democrazia”.

  

I gruppi a difesa dei diritti umani hanno spesso accusato le web company di collaborazionismo, come nel caso dell’arresto dello scrittore cinese Shi Tao, condannato grazie alla presunta collaborazione di Yahoo, a 10 anni di prigione per aver diffuso sul web informazioni ritenute “segreti di Stato” dal governo di Pechino.

  

Anche Google – che invece negli Usa difende strenuamente i diritti di riservatezza e libertà degli internauti – ha ceduto alle pressioni dei regimi repressivi come la Cina ed è stata per questo accusata di sostenere la politica del ‘due pesi due misure’.

  

Pratiche aspramente criticate dall’opinione pubblica internazionale e che hanno fortemente oscurato l’immagine di aziende simbolo – a occidente – di un nuovo corso dell’informazione.

  

L’Egitto è entrato quest’anno nella lista dei paesi ‘nemici di internet’, da cui sono invece usciti la Libia, le Maldive e il Nepal.

Secondo RSF, il presidente, Hosni Mubarak, ha infatti intrapreso una politica autoritaria particolarmente preoccupante per quanto riguarda il web e tre blogger sono stati arrestati e incarcerati “per aver essersi espressi a favore di riforme democratiche nel Paese”.

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