Lo ‘stress d’identità’ sempre più fattore di rischio per le aziende. Studio Vodafone

di Alessandra Talarico |

Europa


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In un’epoca in cui le aziende fanno di tutto per aiutare i dipendenti a trovare il giusto equilibrio tra vita privata e lavorativa, i vantaggi di questi sforzi rischiano di essere vanificati da quello che viene definito “stress d’identità“.

A lanciare l’allarme è l’ultimo studio Vodafone Working Nation, secondo cui sempre più lavoratori cambiano identità appena timbrano il cartellino.

Un atteggiamento da ‘Dottor Jekyll & Mr Hyde’ che rischia di avere un impatto molto negativo sulla carriera e la vita sociale.

 

Il sondaggio, condotto su 2.500 lavoratori britannici, ha rilevato che il 58% delle persone cambia personalità ed identità per adattarsi al lavoro.

Cosa ancor più grave, circa il 6% degli intervistati si sente obbligato a cambiare totalmente identità.

 

I lavoratori dall’identità stressata lavorano il più delle volte per aziende che in qualche modo vanno contro i loro valori e principi e tendono più degli altri a mentire per avere successo e a dare la colpa dei loro errori ai colleghi.

Più degli altri, poi, si sentono insoddisfatti della propria vita lavorativa.

 

Il conflitto di valori, comunque, non è confinato solo agli ‘stressati’: circa 16 milioni di lavoratori (64%) non si sentono in sintonia con ciò che la loro azienda rappresenta e 15 milioni (58%) sono disposti a cambiare qualcosa di loro stessi per adattarsi.

 

Come conseguenza, emerge sul posto di lavoro tutta una serie di comportamenti altamente dannosi per la salute psicologica e fisica dei lavoratori.

Ad esempio, spiega Vodafone, circa 5 milioni di persone (20%) cambiano in maniera significativa il proprio aspetto; 3,5 milioni (14%) hanno modificato il proprio accento; 1,5 milioni (6%) hanno addirittura cancellato la propria identità religiosa, mentre 1 lavoratore su 50 nasconde il proprio orientamento sessuale.

 

Emerge ancora dallo studio che il 29% dei lavoratori mente a se stesso e fa fatica a socializzare; 1 lavoratore su 3 si sente insoddisfatto; il 7% si dice disposto a mentire e l’11% ad essere crudele per fare carriera.

Gli uomini più delle donne sono disposti ad accollare la colpa dei loro errori ai colleghi e a rinnegare i loro valori per avere successo.

 

Circa 1 datore di lavoro su 5, infine, ha intervistato candidati che hanno assunto una falsa identità per sembrare più idonei al lavoro.

 

Questi atteggiamenti sono sintomi di un malessere che non è relegato al posto di lavoro ma si ripercuote anche sulla vita privata: i lavoratori dall’identità stressata sono tre volte di più soggetti a essere “fortemente insoddisfatti” della loro vita sociale e più preoccupati degli altri riguardo gli effetti del proprio lavoro sulla qualità della loro vita e sulla loro autostima.

 

Un atteggiamento negativo che non può non avere impatto anche sulla produttività.

Per Mark Bond, di Vodafone Uk, “il giusto equilibrio tra vita privata e lavorativa non riguarda soltanto le ore che ogni lavoratore passa in ufficio, ma anche chi si è quando si arriva a lavoro”.

 

I dati raccolti nello studio evidenziano tra l’altro che sono molto spesso i datori di lavoro a pretendere qualche pur piccola modifica dell’identità dei propri dipendenti: 1 capo su 10 si aspetta addirittura che i dipendenti modifichino la propria personalità per adattarsi al lavoro. Questo nonostante l’88% dei datori di lavoro si dica d’accordo sul fatto che ora più che mai è essenziale che i lavoratori conservino la propria “reale identità”.

 

La pressione dall’alto è confermata dal fatto che 1 lavoratore su 5 ha riferito di essere stato incoraggiato dal management ad apportare qualche modifica al proprio modo di essere, anche se conta molto anche l’ambizione personale e la paura.

Il 44% degli intervistati ha riferito di aver fatto propri falsi valori e caratteristiche comportamentali per ‘guadagnare consensi’, mentre il 33% lo ha fatto per paura di perdere il posto.

 

Il rapporto, spiega Vodafone, vuole essere un campanello d’allarme per tutte quelle aziende che ignorano il fatto che i lavoratori sono il loro maggiore asset competitivo e che il successo di ogni compagnia dipende dal valore della forza lavoro in ogni singolo processo produttivo.

 

Cary Cooper, docente della Lancaster University Management School ha spiegato che “La notizia peggiore che si evince dal rapporto Vodafone è quella che i lavoratori sentono un’enorme pressione a cambiare il proprio atteggiamento a lavoro e ad agire in maniera predefinita. La buona notizia è che i datori di lavoro, pur aspettandosi un certo livello di conformità, dicono di celebrare e incoraggiare l’individualità e chiedono maggiore apertura e onestà sul posto di lavoro”.

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