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Liberalizzare attraverso la tecnologia: il ‘governo dell’etere’ è possibile, ma occorre costruire regole che stimolino le imprese e incentivino gli investimenti

Italia



Il governo dello ‘
spettro elettromagnetico‘ vede, storicamente, affiancarsi due modelli, in apparenza antitetici ma nella realtà  convergenti.

Il primo è quello europeo basato sul monopolio statale delle radiofrequenze (e degli operatori che le utilizzano: radiotelevisione e telecomunicazioni). Il secondo è quello statunitense che ha visto una intesa fra imprese e Stato federale per la spartizione dell’etere in mercati chiusi all’ingresso di nuovi operatori.

    

Questi due modelli, molto consolidati, vengono messi in crisi, come molti altri, dalla digitalizzazione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Non solo le frequenze possono avere maggiori e più efficienti utilizzi, ma esse sono affiancate dal cavo e dal satellite.

Il principio – su cui dogmaticamente si era costruito il sistema – della “scarsità delle radiofrequenze” ha iniziato a vacillare mostrando la sua relatività, ovverosia la sua dipendenza da una molteplicità di fattori: tecnologici, economici, oro-geografici, demografici. Una frequenza è “scarsa” ove, per veicolare un certo servizio, non vi siano sistemi o infrastrutture alternativi, vi sia un numero di richiedenti superiori alle disponibilità, vi  sia una effettiva necessità di tali frequenze per coprire un territorio, quest’ultimo abbia una popolazione concretamente o potenzialmente interessata al servizio in maniera superiore alla sua capacità di offerta.

     

La digitalizzazione ha prodotto un rapporto biunivoco fra creazione di nuovi servizi e sviluppo delle reti (fisse, mobili o satellitari) determinando, con riguardo alle frequenze, non solo un loro uso più efficiente, ma anche una progressiva utilizzazione di “bande” prima non fruite oppure destinate ad usi diversi ( tipicamente militari).

     

Negli Stati Uniti ciò ha comportato la rottura dello status quo con l’ingresso di nuovi soggetti su tutti i mercati, ma soprattutto criteri di assegnazione che si sono mossi dalla logica delprius in tempore potior in iure  a quella di mercato (il miglior offerente).

Ma anche in Europa si è infranto l’insostenibile monopolio statale e soggetti privati sono entrati prepotentemente nel mercato diventandone i protagonisti.

Si deve però osservare una differenza nei due grandi settori: mentre nelle telecomunicazioni la liberalizzazione è stata voluta, imposta e diretta dalla Comunità Europea, nulla di tutto ciò è avvenuto con riguardo alla radiotelevisione. E mentre con riguardo alle telecomunicazioni l’utilizzo delle radiofrequenze è avvenuto sotto uno stretto controllo statale che ne ha assicurato – pur con alcune differenze – uno sviluppo ordinato, con riguardo alla radiotelevisione questo non sempre è avvenuto, in particolare in due grandi paesi come l’Italia e la Spagna. Con il risultato di una occupazione disordinata ed inefficiente dello spettro radioelettrico dal quale è difficile uscire.

In Europa dunque si assiste ad un apparente paradosso: mentre nella maggior parte dei paesi l’accesso al mercato radiotelevisivo è negato per via di una regolamentazione ex ante che ha assegnato le frequenze al soggetto pubblico e poi ad un numero  ristretto di soggetti privati, in Italia l’accesso è ostacolato dalla mancanza di risorse disponibili perchè già in mano ai privati.

    

Tutto ciò è frutto di opposti estremismi giuridico-ideologici: da un lato chi ritiene che l’attività radiotelevisiva costituisca una attività di preminente interesse pubblico ( al pari della difesa, dell’ordine pubblico, dell’istruzione) e dunque possa essere aperta ai privati solo se questi sono vigilati attentamente.  Dall’altro lato chi ritiene che l’attività radiotelevisiva sia esplicazione della libertà di manifestazione del pensiero e dunque possa essere esercitata da tutti senza limiti o controlli.

Ovviamente tali impostazioni estreme convergono nel negare la realtà dei fatti e cioè che l’impresa radiotelevisiva  è in primo luogo una impresa che vive e prospera offrendo servizi audiovisivi che, in una società opulenta, sono prevalentemente servizi di intrattenimento. E che mentre rientra pienamente nella logica di uno stato liberal-democratico-sociale la previsione di una “scuola dell’obbligo”, non vi è nè può esservi una “televisione dell’obbligo”  che i cittadini sono tenute a vedere. Si guarda la televisione perchè se trae un piacere comunque superiore alle alternative (che sono i diversi modi di impiegare il tempo libero). Non perchè vi si è obbligati.

    

Le contraddizioni sono ora acuite dal fenomeno della c.d. convergenza che offusca le differenze fra telecomunicazioni e radiotelevisione portando gli operatori della prima ad offrire contenuti audiovisivi e gli operatori della seconda ad offrire servizi di comunicazione interattiva.

Quali gli effetti di tutto ciò sulla disciplina delle radiofrequenze? La disciplina comunitaria – passata, presente e futura – è uno specchio fedele dell’evoluzione del sistema.

Agli inizi della liberalizzazione la questione della disponibilità delle radiofrequenze per i nuovi entranti si risolve essenzialmente nella previsione di procedure trasparenti e non discriminatorie per l’accesso al mercato. Si tratta, in altri termini, di assicurare la parità di trattamento con l’ex monopolista, consentendo un pari accesso alle risorse frequenziali. Peraltro ci si interessa solo delle telecomunicazioni e non della radiotelevisione.

   

Il primo intervento lo si rinviene nel “pacchetto” di Direttive del 2002 cui si aggiunge la coeva Decisione 676 sullo spettro radio.
Il filo conduttore è che lo svolgimento di attività di comunicazione elettronica deve essere sottoposto ad un regime di autorizzazione, assoggettata ai vincoli generali della
interoperabilità, della sicurezza e della protezione dei dati personali. L’eccezione  – con,  dunque, un regime selettivo con obblighi ulteriori – è rappresentata dalle risorse scarse fra cui si indicano le radiofrequenze.

Con riguardo a queste si stabilisce un generale regime di trasparenza e non discriminatorietà nella assegnazione secondo procedure pubbliche scelte dagli Stati membri e si prevede la facoltà per questi ultimi di consentire la cessione purché ne venga conservata la destinazione d’uso.

    

Al Comitato istituito con la Decisione sullo spettro radio viene  affidato il compito di coordinare e di uniformare le procedure di assegnazione nei vari paesi.

Il “pacchetto” del 2002 si applica anche alla televisione? Nella Direttiva-quadro (21/02) si precisa che essa si applica anche alle reti di trasmissione radiotelevisiva, fermo restando il controllo dello Stato sul rilascio dei titoli abilitativi e sui contenuti da trasmettere.

La cauta apertura verso una comune regolamentazione non pare abbia prodotto i risultati auspicati se, appena quattro anni dopo, la Commissione europea ha proposto un approccio più radicale nei documenti presentati per la consultazione pubblica il 28 e 29 giugno 2006.

Si deve sottolineare come le nuove proposte sulla gestione dello spettro radio siano state precedute da due Comunicazioni della Commissione del 2005, la prima su “un approccio basato sul mercato in materia di gestione dello spettro radio” [COM (2005) 400 def] e la II relazione annuale sullo spettro radio [COM (2005) 411 def]. Entrambi tali documenti hanno sostenuto con varietà di argomenti l’opportunità di introdurre e sviluppare un mercato secondario delle frequenze.

     

Tali conclusioni sono riprese dai più recenti documenti della Commissione. In particolare quello sulle proposte di modifica al quadro regolamentare presenta le seguenti innovazioni:

a) Libertà di utilizzare qualsiasi tecnologia nell’uso dello spettro radio (fermi restando i limiti per evitare interferenze e inquinamento elettromagnetico).

b) Libertà di utilizzare lo spettro radio per prestare qualsiasi servizio.

c) Generale principio di facoltà di cessione dei diritti d’uso su talune frequenze, secondo principi comuni a tutti gli Stati membri e fatta salva la tutela della concorrenza.

d) Introduzione di una procedura di comitato per l’elaborazione dei principi comuni ed in particolare:

Da parte sua il documento comunitario sulla valutazione d’impatto prospetta tre ipotesi:

a) la creazione di una agenzia europea per la gestione dello spettro radio

b) la creazione di un comitato di regolazione con il compito di coordinare le azioni dei soggetti nazionali e fissare regole comuni

c) mantenere lo status quo aumentando l’efficienza della gestione dello spettro sulla base dell’attuale quadro regolamentare.

   

Il documento mette in luce per e contro delle tre ipotesi.

Si tratta, come si vede, di un piano assai innovativo sotto due aspetti:

Prima di cercare di calare tali proposte – le quali, è bene sottolinearlo, avranno un iter lungo e incerto – nel contesto italiano, è bene ribadire la diversità di prospettiva della maggioranza altri paesi membri rispetto ai quali l’accesso al mercato dei servizi di radiodiffusione è fortemente ostacolato da una politica dello spettro di tipo concessorio. Ciò si rimarca perché, a dispetto di una pubblicista che indulge in una provinciale autoflagellazione, la situazione italiana presenta criticità per via delle carenze di regolamentazione, ma non soffre di quella assenza di libertà, in primo luogo di impresa, che è dato riscontrare  negli altri Stati.

    

Ciò premesso, il vigente quadro normativo italiano si trova, grazie alla lungimiranza del legislatore ( non importa la maggioranza: la L. 66/01 è della XII legislatura, di centrosinistra; la L. 112/04 è della XIII legislatura, di centrodestra), in linea con i futuri scenari avendo cercato di cogliere tutte le potenzialità offerte dal diritto comunitario ed avendo fatto del mercato secondario delle frequenze uno dei fattori di maggiore mobilità del mercato.

Inoltre già il Regolamento AGCOM 435/01 e poi la L. 112/04 avevano provveduto ad eliminare uno dei principali fattori di equivoco che esisteva sotto il precedente regime concessorio, separando nettamente titolo abilitativo all’esercizio all’esercizio dell’attività da titolo alla disponibilità d’uso delle radiofrequenze. Il che è ovvio: una volta che l’attività è libera ( basta una comunicazione) non è pensabile che lo Stato debba fornire la provvista radioelettrica.

 

Certamente, il processo di cessione continua ad essere macchinoso (necessità di autorizzazione amministrativa espressa) e assoggettato ad una verifica da parte di tutti i potenziali interessati (pubblicità del provvedimento autorizzatorio). Non si è giunti, dunque, ad mercato interamente privatistico o a scarso controllo pubblico (per la cessione di altre abilitazioni amministrative vi è la semplice comunicazione ed il silenzio-assenso).

Si tratta, tuttavia, di un primo passo verso l’applicazione di un regime comune anche nel settore radiotelevisivo e l’estensione della concorrenza dai contenuti alle infrastrutture di rete (e cioè copertura territoriale, bacini effettivamente serviti, qualità del segnale che non è più solo in ricezione, ma anche interattivo).

  

Non mancano, ovviamente, questioni, rilevanti al punto di vista tanto giuridico che economico, del mercato secondario delle licenze amministrative che sono “acquistate” corrispondendo al soggetto pubblico licenziante somme modeste che poi crescono significativamente quando vengano cedute ad altri privati. Vi è dunque una appropriazione della plusvalenza da parte di un soggetto diverso dall’originario titolare. Peraltro se ciò avviene comunemente in tanti settori (oltre a quelli già citati, si pensi alle licenze urbanistiche, alle c.d. quote latte o, a livello internazionale ai “crediti” per emissioni inquinanti) non vi è motivo per stupirsi che lo stesso percorso sia stato seguito prima nelle comunicazioni elettroniche e, poi, nella radiotelevisione.

  

Il mercato secondario presenta inoltre il vantaggio di stimolare processi cooperativi che la misura del recupero coattivo delle radiofrequenze assai difficilmente riuscirebbe a conseguire, come la vicenda dei lustri scorsi, costellata da aspre ed infruttuose contese giudiziarie, ha dimostrato.

  

Come assecondare tali processi cooperativi?

Innanzitutto occorre prefigurare  un uso economicamente efficiente delle radiofrequenze.
L’efficienza è data da due fattori: la quantità dello spettro utilizzato e il pubblico raggiunto. La digitalizzazione del servizio doveva servire ad un triplice scopo: per un verso utilizzare meno risorse ( su una frequenza digitale possono viaggiare 4  5 programmi, rispetto all’unico analogico); per altro verso ridurre le interferenze ( e dunque le contese sui “confini” delle singole bande); ed  infine costringere le imprese a fare investimenti tecnologici favorendo il taglio  dal mercato dei “rami secchi”. La decisione dell’attuale governo di rinviare al 2008 l’entrata in vigore delle aree all-digital in Sardegna e in Val d’Aosta, nonché di procrastinare lo switch-off al 2010-2012 è un pessimo segnale. Più si ritarda la digitalizzazione meno frequenze saranno disponibili.

  

Occorre superare la rigida dicotomia emittenza nazionale/emittenza locale.
Nel momento in cui la televisione è digitale la sua rete non può che avere l’ambito che l’operatore sceglie di avere, così come avviene nel resto delle comunicazioni. Pensare, nell’epoca delle reti globali (Internet, satellite, telefonia mobile) di ritagliare spazietti di protezionismo locale appare come creare delle autostrade regionali o addirittura provinciali. Il  Regolamento AGCOM 435/01 aveva già risolto correttamente la questione stabilendo che gli operatori di rete nazionale possono trasmette programmi locali e viceversa. In termini operativi, superata la preistorica idea di reti locali, è necessario favorire l’aggregazione di  infrastrutture locali per la realizzazione di reti nazionali sulle quali potranno viaggiare anche programmi locali. Si tratta del primo passo verso la creazione  di veri e propri carriers che offrono capacità trasmissiva consentendo ai fornitori di contenuto di contendersi il territorio in base alla qualità ed appetibilità dei propri servizi audiovisivi. Un esempio in tal senso è dato dall’art. 27 del Codice della radiotelevisione.

  

Infine va pensato un sistema di pianificazione dello spettro radioelettrico che unisca all’interesse imprenditoriale l’utilità sociale.
Il modello potrebbe essere utilmente mutuato dai collaudati sistemi di pianificazione urbanistica. Il trasferimento di licenze o frequenze, laddove queste ultime siano scarse, comporta l’obbligo o di cederne parte ( in quello stesso bacino o in un altro) allo Stato che potrà poi rimetterle sul mercato, oppure riservando capacità trasmissiva a terzi, ovvero assumendosi ulteriori oneri di servizio pubblico.

  

Il “governo dell’etere” è possibile, ma occorre costruire regole che stimolino le imprese ed incentivino gli investimenti, abbandonando pericolosi rigurgiti dirigistico-espropriativi (che ricordano battaglie d’antan contro il latifondo, additato come la somma di ogni male politico-economico-sociale). Il riferimento esplicito è al documento, presentato il 12 luglio, dall’Associazione ASTRID ( 10 proposte/obiettivo per la riforma del sistema radiotelevisivo) che pare ispirato ad una logica davvero antiquata: per dirla con una battuta, uno spettro si aggira per l’Italia, ed è lo spetto della nazionalizzazione dello spettro radioelettrico.

 

    

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