Industria audiovisiva europea: operatori e decisori a confronto al Think Tank di Copenhagen

di di Gaetano Stucchi (Media Consultant) |

Europa


Gaetano Stucchi


Si è concluso da pochi giorni il Think Tank on European film and European film policy Copenhagen, organizzato dal Danish Film Institute.
Un’iniziativa indipendente ed irrituale che il
suo direttore Henning Camre ha voluto e ha costruito, con determinazione e generosità di mezzi,selezionando ed invitando ben 167 opinion leaders da 33 paesi, in rappresentanza della produzione cinematografica indipendente, i public bodies (come il CNC francese e l’UK Film Council, e lo stesso DFI), studiosi e ricercatori, direttori di Festivals, di Film Commissions, di Fondi regionali e nazionali di sostegno all’audiovisivo, con due prestigiosi e carismatici key note speakers come David Puttnam e Jeoffrey Gilmore, direttore del mitico Sundance, l’istituto e festival cinematografico fondato da Robert Redford.

Sparuta come sempre la delegazione italiana (ma questa volta anche quella francese, forse in disaccordo pregiudiziale con l’approccio anticonformista degli organizzatori).

  

Le accanite discussioni nei 5 working groups e nelle sedute plenarie erano state preparate con cura da una serie di spregiudicate statistiche sullo stato dell’industria audiovisiva in Europa (dovute a Jonathan Davis ); nonché di altrettanto spregiudicate domande sull’efficacia dei sistemi di sostegno e regolazione del mercato, messi in atto dalla maggior parte dei Governi nazionali, e sugli effettivi risultati raggiunti nei rispettivi paesi in termini di sviluppo e crescita del settore.

Grazie anche a questo lavoro preparatorio di grande coraggio ed originalità, e all’estrema ampiezza e diversità degli interessi e delle culture professionali rappresentate, il Think Tank ha prodotto da un lato una ricca e articolata analisi critica della situazione esistente; ma dall’altro le sue conclusioni (cioè le agende messe a punto dai cinque gruppi di lavoro) hanno reso problematica la definizione di una piattaforma consensuale per il ri-orientamento e l’armonizzazione delle varie politiche nazionali in atto in Europa.

Obiettivo ancora prematuro, forse, per un progetto ai suoi primi passi, di cui sarà comunque interessante seguire il cammino e le prossime tappe.

 

Una volta di più abbiamo visto confermato uno dei principali gap competitivi (anche se poco citato), che indeboliscono l’ industria audiovisiva europea rispetto alla concorrenza USA: l’incapacità di “parlare con una sola voce”, come fanno da sempre gli americani, agli interlocutori politici, ai Governi, alle Autorità di regolazione, all’Europa, avendo già mediato al proprio interno tra le varie emergenze e pressioni categoriali e settoriali, e avendo costruito una comune ipotesi strategica unificante e convincente. 
In generale forme di auto-regolazione o di co-regolazione restano infatti preferibili, come supporto ad uno sviluppo produttivo solido e non eccessivamente conflittuale, ad interventi legislativi o normativi top-down.

 

Tuttavia un filo rosso di ragionamento é comunque emerso dall’insieme dei lavori del Think Tank, pur tra contraddizioni e timori divergenti, soprattutto sul futuro tecnologico ed economico della distribuzione audiovisiva e sui suoi riflessi, più o meno probabili, sulla vita del cinema europeo e sul funzionamento dell’ intero sistema globale delle comunicazioni.

Punto di partenza, i 700 film (anche 900, secondo l’Osservatorio Europeo di Strasburgo) prodotti ogni anno in Europa : troppi per le capacità di assorbimento del Mercato Unico, sia nella rete delle sale che nelle griglie delle televisioni pubbliche e private (generaliste, tematiche o pay che siano). E troppo disuguali e inaffidabili, nella loro qualità artistica come nel loro potenziale commerciale.

Già nel proprio paese d’origine, una quantità ingiustificabile di questi film é di fatto condannata ogni anno all’ oscuramento, all’esclusione dalla distribuzione e dall’ accesso agli spettatori (se non in forma simbolica): il finanziamento pubblico investito nella quasi totalità di questi titoli non solo non sarà mai recuperato, ma non avrà alcun effetto sulle dinamiche di mercato.  Anche perché la maggior parte di essi andrà ancora peggio (o non andrà per nulla) sui mercati esteri, in Europa come a livello internazionale.

La ragione principale di questo “intervento a vuoto”, di questa public funding failure, sta nel fatto che il (falso) obiettivo prescelto dai decisori e policy makers governativi é in realtà la sopravvivenza, e non lo sviluppo delle varie industrie audiovisive nazionali. Si rinuncia cosi’ a formulare un vero disegno politico e strategico, a cui finalizzare l’ uso delle risorse pubbliche : un disegno capace di darsi mete non solo occupazionali e produttive, ma civili e strutturali, come si converrebbe ad una industria culturale di interesse nazionale e comunitario. E un disegno capace di “selezionare” i film da sostenere in base alle loro possibilità di contribuire al raggiungimento di queste mete.

 

C’ é un difetto di public value in  molti, troppi di quei 700 film, che ogni anno vedono la luce  più per garantire la continuità economico-finanziaria delle società che li hanno prodotti, che per costruire o ritrovare un proprio pubblico sui rispettivi mercati nazionali, ma sopratutto al dilà di questi.

Le attuali politiche di sostegno assumono l’ incapacità dei nostri mercati nazionali di coprire i costi della rispettiva produzione cinematografica come una market failure, a cui l’ intervento pubblico dovrebbe porre rimedio. Nella maggior parte dei casi la corretta risposta sarebbe invece la presa atto dei limiti oggettivi di questi mercati (chiaramente non autosufficienti, nemmeno nei maggiori paesi UE, senza i fondi statali) e lo sforzo di superarli alzando i livelli selettivi (e quindi riducendo il numero dei prodotti da supportare, ma aumentando la forza del sostegno) sulla base delle qualità culturali ed artistiche delle opere, ma insieme del loro potenziale di “esportabilità”, di penetrazione sul mercato globale. Questo Mercato con la maiuscola é l’ unico in grado di “pesare” il valore economico di un prodotto come il film, cioè la sua capacità di ricreare  (dove possibile, nel tempo più breve) l’ investimento, pubblico o privato, effettuato per la sua realizzazione.

Oggi invece il denaro pubblico viene usato non per alzare il livello di selezione (cioé la qualità dei prodotti, e la crescita del settore), ma per cancellare o appiattire le differenze fra le diverse opere della produzione nazionale, le diversità di public value e di potenziale commerciale (e non sempre c’é contraddizione tra le due cose). Il tutto in una prospettiva difensiva, di pura sopravvivenza, e in nome di un falso pluralismo e di una falsa diversità culturale, che alla fine riescono solo a gonfiare il numero delle produzioni assistite, abbassandone contro ogni logica il livello medio e dunque la competitività complessiva.

 

Non pochi partecipanti (sia europei, che di altri continenti) al Think Tank hanno ammesso che il generico brand del cinema europeo, se vogliamo davvero trovarne traccia nello spettatore, é sinonimo di valore negativo (elitario, noioso, impopolare, nombrilista, hanno detto i più gentili) e comunica un immagine non attraente sia al pubblico europeo che a quello degli altri continenti.

Più che pensare ad un improbabile branding del cinema europeo in quanto tale, di fatto bisognerebbe dunque lavorare alla creazione di singoli brand, magari fortemente “locali” o nazionali (vale l’ unico esempio recente del danese DOGMA e di Lars Von Trier), ma capaci di farsi riconoscere, di funzionare a livello globale. Rispecchiando davvero in tal modo la tipica pluralità e diversità culturale del nostro continente.

Il forte carattere identitario di un opera audiovisiva, il suo radicamento locale (che viene normalmente considerato come un presupposto di qualità creativa) non contraddice necessariamente la sua ambizione universale, la volontà, nei temi come nel linguaggio, di parlare a molti, la tensione di un’ opera verso l’ udienza più vasta possibile, e verso la perennità.

 

Tutto questo significa, ancora una volta, maggiore competizione e maggiore selezione, meno film e più qualità. Naturalmente una parola d’ ordine come questa puo’ essere presa alla lettera per le cinematografie sovrabbondanti e sovrassistite, non certo per i paesi medi e piccoli (come la Danimarca o l’ Olanda), che legittimamente aspirano ad allargare la quota di mercato interno (e il numero delle opere) della loro cinematografia nazionale.

E naturalmente rimane aperta la scelta della via verso questi obiettivi, che in ciascuna situazione nazionale troverà combinazioni diverse, tra sistemi automatici o selettivi, tra il sostegno prioritario alla produzione o alla distribuzione, tra il giudizio di comitati rappresentativi (prevalente nell’ area mediterranea) o quello di esperti competenti, e basta (come nel Nord-Europa) : il contesto civile, professionale ed economico di ciascuna industria audiovisiva in ciascun paese detterà le soluzioni più adatte, visto che nessuna formula, ovviamente, é esente da inconvenienti e difetti.

 

Troppo poco si é parlato forse, a Copenhagen, del rapporto del cinema con i sistemi televisivi nazionali, e sopratutto con i servizi pubblici di televisione e con le Pay TV; nonostante l’ estrema attualità del tema, anche a livello di Unione Europea, con la revisione in corso della Direttiva “Televisione Senza Frontiere”.

Crescente sfiducia nel ruolo di Bruxelles in queste materie? nelle capacità di risposta di un industria televisiva europea, che sembra arroccata su posizioni altrettanto, se non più difensive che quella cinematografica?

 

Anche per questo, invece, si é parlato molto, anche troppo, di futuro, di quei nuovi mercati, come i servizi on line e VOD, che sembrano promettere gli spazi infiniti (per 700 e più film all’ anno) non più disponibili nelle sale o sugli schermi televisivi.

Ma un mercato non é fatto solo di canali distributivi che si moltiplicano, di terminali pervasivi, di gadgets e meraviglie digitali : é fatto sostanzialmente di un pubblico, ahimè non infinito, di spettatori / consumatori da interessare e da sedurre; e della loro disponibilità di tempo e di soldi per accogliere le offerte sempre più numerose e concorrenziali dell’ industria della comunicazione e dell’ intrattenimento.  

Sottovalutando stranamente il peso oggettivo (non solo economico) e il trend di crescita della nuova editoria in DVD, cioé il consumo privato e domestico di cinema su supporto individuale (e il possesso di questi supporti), le discussioni e i rapporti di alcuni dei gruppi di lavoro hanno enfatizzato con un eccesso di retorica il potere “liberatorio” e pluralistico delle nuove forme distributive digitali, sul modello AMAZON (per l’ editoria libraria) e NETFLIX (per quella video).

 

Strano ritrovarsi ancora di fronte al mito della long tail theory (più ricavi da molti titoli minori, che da pochi blockbusters), quando le più mature analisi di questo fenomeno hanno ormai mostrato con chiarezza che i mirabolanti effetti e i sorprendenti volumi di business, prodotti dalla nuova logica commerciale, sono destinati a beneficiare i segmenti distributivi e retail del sistema audiovisivo, molto più di quanto possano rifinanziare quello produttivo.

 

Complessivamente, su questo filo rosso dei ragionamenti sviluppati a Copenhagen, di impagabile sincerità e di insolito coraggio, dovrebbe riflettere l’ industria audiovisiva in generale, e non solo i gestori statali delle risorse e delle politiche pubbliche.

Ancor di più nel nostro Paese, dove l’opportunità e l’urgenza di una simile riflessione, rinviata da troppi anni, si é fatta oggi concretissima e pressante: certo, per le crescenti difficoltà economiche del paese e del settore, ma non soltanto per quelle.

 

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