Perché l’Italia perde competitività? Domanda facile e difficile a un tempo, a seconda dei punti di vista

di Alessandra Talarico |

Italia


ICT

Alcune settimane fa è stata lanciata da Eccellere in collaborazione con Key4Biz e Spazio Impresa un articolato sondaggio sulla competitività delle imprese italiane.

 

Migliorare la competitività delle aziende italiane è oggi l’obiettivo principale degli imprenditori che operano nel sistema-Italia, che vorrebbero crescere anche acquisendo quote di mercato sui mercati internazionali e che vogliono affrontare con maggior forza le imprevedibilità della macroeconomia.

 

Guardare alla competitività è una preoccupazione prioritaria per le aziende e sembra a tratti terribilmente distante dalle priorità della politica e della burocrazia. Il sistema delle politica e delle decisioni istituzionali deve fermarsi e riflettere su questi temi fuori dalle contingenze delle scadenze elettorali che hanno in un certo senso paralizzato anche le azioni di questi ultimi mesi.

Da una indagine condotta sei mesi fa da Business International, l’Italia perdeva altre 8 posizioni nella classifica dei Paesi che offrono la maggiore accoglienza a chi vuole investire capitali e lavoro nel nostro paese.

Nel periodo marzo-aprile 2006, il portale Eccellere – Business Community, in collaborazione con Key4Biz e Spazio Impresa, hanno chiesto ad un campione di 1060 lettori (tra dirigenti d’azienda, manager, liberi professionisti e dipendenti) prevalentemente appartenenti al mondo delle piccole medie imprese, quali fossero, a parere loro, le cause della scarsa competitività del sistema-Italia. In buona sostanza una rilevazione “dal basso”.

 

I risultati mettono al 1° posto gli scarsi investimenti nell’innovazione (spendere in ricerca non è una priorità, è piuttosto un atteggiamento anticiclico agli eventi negativi, anziché essere costante nel tempo), seguiti dall’inadeguatezza delle infrastrutture (è necessario investire in porti, strade, vie di scambio e intermodalità con i Paesi europei) e delle politiche per l’impresa e la concorrenza. Tra gli altri elementi pesantemente affiorati, la scarsa cultura manageriale, la difficoltà di accesso al credito e, soprattutto, l’eccessiva diffusione della “raccomandazione”, la segnalazione capace disorientare la cooptazione aziendale spesso indipendentemente dai meriti del singolo.

 

Quella della raccomandazione è una cultura che offre protezione, scalate rapide, e genera pigrizia soprattutto mentale.”, spiega Marzio Bonferroni, Presidente di UniOne, “Una certa cultura dell’illecito e il conseguente nepotismo unito all’antico fenomeno della raccomandazione sono fra i principali killer dell’economia“.

 

Di fronte all’innovazione di prodotto sono purtroppo prevalenti due visioni entrambe distorte“, spiega Aldo Viapiana, Vice Presidente AISM-Associazione Italiana Marketing, “La prima considera l’innovazione come lusso, la seconda come una disperata necessità. In queste due concezioni sta un doppio errore. Da una parte si intende l’innovazione come qualcosa di estraneo alla normale vita dell’azienda, dall’altro si concepisce l’innovazione come un fattore che in quanto tale è in grado di trasformare magicamente una situazione già pesantemente segnata da elementi di arretratezza imprenditoriale“.

Più ottimista il parere di Maurizio Grì, Responsabile Formazione di TIM, che di fronte alla scarsa innovazione non crede di poter individuare una causa unica, o quantomeno un quadro sintetico. “Le variabili in gioco sono troppe per parlare di tendenza. Preferisco pensare ad una situazione difficile, che costringe a trovare necessariamente strade nuove per uscirne e senza fare affidamento a cambiamenti esterni (comunque auspicabili)“. Vi sono settori in cui la competitività si gioca su scala mondiale, e che secondo Maurizio Grì potranno rivelarsi “…i motori dell’economia italiana di domani: innovazione e design“.

 

Ma proprio riguardo questi settori, il cui business è così legato alla capacità di produrre idee, sembra abbia poco peso per gli intervistati la limitata diffusione dei brevetti, rispetto ad altri paesi dell’Unione Europea.

Se per Bonferroni “…si arriverà ad avere una crescita dei brevetti nazionali e internazionali solo quando si avrà una crescita delle idee che portano al brevetto“, più legato alle priorità delle imprese che alla preparazione manageriale sembra essere l’opinione di Viapiana, che puntualizza come basti guardare “…alle aziende nel fashion e accessori, alimentare, mobile, arredo, nel car e industrial design, nella componentistica auto, nella meccanica strumentale, nelle macchine utensili, nell’automazione industriale, nella chimica di specializzazione. In queste aziende ad una robusta, definita e coerente politica di marketing si accompagnano una precisa strategia di branding e una Ricerca e Sviluppo certamente non marginale sul piano della capacità dell’innovazione tecnologica e degli investimenti ad essa destinati. Molto spesso, però, vi è una scarsa consapevolezza di quanto sia rilevante formalizzare anche in termini di brevetto i risultati di R&D che per altro è praticata ancora in modo insufficiente in Italia“.

 

In conclusione, che colore ha il futuro delle imprese italiane? “…Conferirei loro un colore neutro – afferma Laura De Candia, Responsabile Area Internazionalizzazione Confindustria di Bari – “che non si identifica né con una presa di posizione ottimista né pessimista. In futuro è abbastanza prevedibile una riconversione della base produttiva, che si tradurrà in una diminuzione del manifatturiero a vantaggio dei servizi. Dunque non diminuzione di imprese, ma differente assetto imprenditoriale“.

 

Risultati sondaggio

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