Dalla televisione all’audiovisivo senza frontiere. Il punto sulla riforma europea che modificherà il mercato media

di di Roberto Barzanti (Docente di Istituzioni e politiche audiovisive nella Ue - Università di Siena) |

Europa


Roberto Barzanti

La presentazione in data 13 dicembre 2005 della proposta di revisione della direttiva “Televisione senza frontiere” da parte della Commissione europea – COM ( 2005) 646; 2005 / 0260 – consente ora di abbozzare alcune prime riflessioni su testo e di individuare le aree da sottoporre a più attento esame. La consultazione al riguardo è stata molto ampia e la messe di documenti che s’è andata accumulando nell’ambito della Conferenza di Liverpool assai consistente.

La proposta si presenta come un macroemendamento integrativo al testo in vigore e non quindi tocca le parti più roventi e controverse. A una prima lettura sembra, come base di partenza, meno peggio di quello che si poteva temere. Si tratterà di verificare che cosa sopravvivrà e come. Di qui la necessità di scegliere soltanto alcuni temi cruciali, ben sapendo che le problematiche sul tavolo sono numerose e di non facile soluzione.

 

 

1. Estendere il campo d’applicazione

La direttiva del 1989, anche dopo le modiche apportate nel 1997, copriva le trasmissioni televisive, qualunque fosse la tecnologia di diffusione impiegata, fino alla cosiddetta televisione quasi-su-domanda. Escludeva, cioè, – ed escluderà finché non sarà cambiata – i nuovi servizi fruibili su richiesta di un utente, a partire dal Video-on-demand (VOD) e la multiforme gamma dei vari servizi disponibili in Rete, grazie alla convergenza tecnologica, spesso assimilabili per qualità e natura ai servizi tradizionali.

Ora è introdotta la distinzione tra servizi lineari, cioè emessi sulla base di una programmazione di flusso prestabilita e servizi non lineari, cioè disponibili, messi a disposizione, in un momento qualsiasi a seguito di una volontà individuale. In uno dei documenti di sintesi sottoposto agli esperti convocati a Liverpool la Commissione individua come delimitazione dei “servizi di contenuto audiovisivo” quelli in questo senso definibili ai sensi degli articoli 49 e 50 del Trattato CE che consistano in immagini animate, accompagnate o no da suono, e siano rivolti al grande pubblico attraverso reti elettroniche.

 

In tal senso si muove la definizione di “Servizio di media audiovisivo” contemplata all’art 1 (a) individuandolo come “un servizio così come definito agli artt. 49 e 50 del Trattato il cui oggetto principale è la fornitura di immagini animate, combinate o no con suono, al fine di informare, divertire o educare il grande pubblico (‘grand public’ ) con reti di comunicazione elettronica ai sensi dell’art 2, punto della direttiva 2001/21/ CE”. Essi sono tutt’altra cosa rispetto ai servizi accessibili soltanto in forma di comunicazioni individuali. Per i servizi di primo livello rimarrebbero in campo le regole già vigenti debitamente aggiornate, per gli altri sarebbe da varare una regolamentazione più flessibile e leggera. Per entrambi i tipi di servizi sarebbero da stabilire norme comuni sulla protezione dei minori e della dignità umana, sulla identificabilità delle comunicazioni commerciali, come ora è d’obbligo dire, al fine di stabilire un minimo di principi etici e qualitativi da rispettare, e per garantire, infine, il diritto di replica. Insomma viene presentato un quadro a tre livelli, salvo poi determinare in dettaglio la comprensività di questi livelli: regole fondamentali per tutti i servizi, regole analoghe a quelle attuali per i servizi lineari, regole leggere – e per taluni assenza pressoché totale di regole – per quelli nuovi (non lineari), che per svilupparsi dovrebbero godere della massima “libertà”.

 

A favore di tale scelta sta il quadro normativo varato per il commercio elettronico e quello stabilito nella direttiva-quadro sulle telecomunicazioni (la già citata 2002/21/CE) che esclude dal suo ambito d’applicazione, appunto, i servizi “che forniscono contenuti trasmessi utilizzando reti e servizi di comunicazione elettronica o che esercitano un controllo editoriale su tali contenuti”. Il nuovo titolo proposto è “Direttiva sui servizi media audiovisi” (“Directive sur les services de média audiovisuels” o “Audiovisual Media Service Directive”). Gli “operatori di rete” – per riprendere la terminologia del Testo Unico della Radiotelevisione pubblicato lo scorso 28 luglio – non sono investiti da norme che riguardano le attività televisive che abbiano a oggetto contenuti audiovisivi, quale che sia il mezzo di diffusione adoperato. E si badi che la distinzione, a rigore, non è tra chi offre servizi e chi fornisce contenuti, perché la veicolazione di contenuti è presa in considerazione come servizio ed è pertanto da ricomprendere tra quelli che hanno rilevanza e specificità in una corretta e aggiornata regolamentazione dell’audiovisivo.

 

Beninteso, rimangono esclusi: la corrispondenza privata, i servizi non audiovisivi che comprendono parti animate, i formati elettronici dei giornali e la radio. La distinzione – si deve aggiungere – tra un passivo pubblico indifferenziato (“grand public”) ed il pubblico formato da una serie di volontà singole – ma riferite ad un’attività editoriale di partenza – si assottiglia e tendenzialmente si annulla, se si muove dall’esigenza di tutelare e valorizzare, avendo riguardo alle specificità dei comparti, l’audiovisivo nei suoi risvolti economici e creativi, identitari e commerciali. Si tratta di regolare differentemente, ma con lo stesso spirito, l’intero sistema: e, in base alle modifiche presentate, i servizi ricchi di contenuto. Così al posto della definizione desueta sull’attività radiotelevisiva si introduce una categoria che la ricomprende e l’allarga enormemente, quella di “fornitore di servizio di media”, che si caratterizza per il fatto di avere una “responsabilità editoriale” rispetto all’operatore di rete e al fornitore dei cosiddetti , comuni “servizi della società dell’informazione”. In conclusione: l’estensione del campo d’applicazione va accolto favorevolmente: non era affatto scontato che su questo punto si trovasse l’accordo e si fosse quindi dell’avviso di varare un testo unico per i servizi lineari e quelli non lineari.

 

2. Promuovere le opere, incentivare la formazione di cataloghi, accrescere il pluralismo europeo

La sesta comunicazione della Commissione europea sull’applicazione degli articoli 4 e 5 della direttiva, licenziata il 28 luglio 2004, afferma che mediamente l’obiettivo di accordare la parte maggioritaria del tempo di trasmissione a opere europee è raggiunto, essendo stata la percentuale nel 2002 – l’ultimo anno censito – del 66,10%, mentre assai più debole è la percentuale che concerne la produzione indipendente: 34,03%, inferiore addirittura di 3,72 punti rispetto a quella dell’anno precedente. Si sa bene – tante volte è stato ribadito – che di per sé queste percentuali significano poco, sia perché come opere europee sono considerate opere che non hanno niente a che fare con la fiction o comunque con una vera creatività sia perché esse sono raggiunte senza alcun sforzo mettendo nel paniere del calcolo la produzione nazionale. Si stima che non sia superiore al 10% la produzione non nazionale che riesce a circolare nel piccolo schermo. Ecco che allora tornano attuali rivendicazioni o sollecitazioni più volte annunciate: elevare al 60%, ad esempio, la quota di tempo da raggiungere. Del resto questo era l’obiettivo proclamato nella primissima proposta – quella del 1986 – dell’ esecutivo comunitario. Se oggi si supera tanto facilmente il 60% non si vede perché non si debba sancire il dato, se non altro per frenare un arretramento.

 

Altre domande si potrebbero aggiungere: togliere il famigerato inciso “ogniqualvolta sia possibile”, dare una definizione più congrua di “opera europea”, dare una definizione accettabile di “produttore indipendente” e così via. Ma la questione delle questioni è un’altra, ovviamente: questo tipo di regole tutto sommato, con i tempi che corrono, piuttosto incisive – soprattutto se rese più stringenti – si applica ai servizi lineari, cioè a quelli tradizionali. Si deve tener presente che gli artt. 4 e 5 della direttiva – stando alla proposta – rimangono immutati. Occorre dunque domandarsi su cosa sia opportuno fare con i nuovi servizi, non lineari (cioè “on line”! ). A parte le regole basilari alle quali tutti gli attori dovranno adeguarsi, ne sono pensabili alcune – non esose e non irrealistiche – che si confacciano ad un settore dalle inesplorate chances ed estremamente variegato. Qui la fantasia può sbizzarrirsi: il Provider che immette in rete contenuti audiovisivi potrebbe contribuire in determinate percentuali alla produzione, ma indubbiamente meccanismi di prelievo anche leggeri sono impopolari e potrebbero addirittura avere effetti negativi; sollecitare la presenza nei cataloghi di opere europee, senza necessariamente spingersi a quote cifrate; concedere forti sostegni – ma il tema non è di pertinenza di una direttiva – alla digitalizzazione delle opere e aiutare/facilitare la loro fruibilità nelle reti ed in genere nei nuovi servizi; rendere quanto più agevole e multilinguistico l’accesso ai contenuti audiovisivi. La partita dei nuovi servizi si gioca in campo aperto e dipende, in primo luogo, dalla capacità di produrre e dalle strategie che vorranno darsi i protagonisti di un dinamico settore dai molti inesplorati aspetti inediti. Essenziale è che i colossi delle telecomunicazioni non credano di dominare quest’universo guardando esclusivamente ai conti e massacrando a loro piacimento o usando nel modo più disinvolto un patrimonio di immagini e di storie da tutelare nella sua fisionomia, e non relegando ai margini le officine principali. L’esorbitante costo dei diritti degli avvenimenti sportivi ha prodotto squilibri e distorsioni che non si possono non affrontare. La difformità di tassazione tra trasmissioni radiotelevisive e servizi prestati per via elettronica è anch’essa all’origine di patologiche distorsioni di concorrenza: e qui si segnalano ben sapendo che non sarà una direttiva a porvi rimedio.

Per i nuovi servizi la formula proposta sembra essere assai vaga e offerta come traccia a chi intenda fare di più sia nel senso di sostenere la formazione di cataloghi sia nella direzione di un contributo da chiedere agli operatori di rete e ai fornitori di servizi: “Gli Stati membri vigilano che i fornitori di servizi di media sui quali esercitino la propria competenza promuovano, ogniqualvolta sia possibile e con i mezzi appropriati, la produzione di opere europee ai sensi dell’art. 6 così come l’accesso a queste ultime”. Una tale formula è esposta a interpretazioni riduttive o minimaliste, ma con l’aria che tira sarà difficile andare molto oltre. Questo primo paragrafo dell’art. 3 septies sarà il fulcro delle possibili regole per in nuovi servizi audiovisivi. Nella versione finale si legge “promuovano”, in una bozza antecedente si leggeva “facilitino”. Segue il famigerato inciso presente anche nell’art. 4. Se il Parlamento, anche su sollecitazione delle Associazioni di settore, avrà voglia di dar battaglia è su questo punto e su altri contigui di minor peso che dovrà lavorare.

 

3. Controllare e limitare la pubblicità

La risorsa pubblicità o gli investimenti in comunicazione commerciale, come preferiscono si dica gli addetti ai lavori, sembrano diventati la chiave di volta di tutto il sistema. La Comunicazione della Commissione in argomento, presentata nell’aprile 2004, ha già allarmato non poco. A furia di “split-screen” e “product placement” e di altri ingegnosi neologismi è sorto un lessico che si è fatto sempre più invadente e per troppi seduttivo. La pubblicità per molte emittenti è un mezzo di vita fondamentale, e dunque bisogna stare attenti nel partire in quarta con polemiche anacronistiche. Chi osserva il fenomeno dall’Italia è indubbiamente fuorviato dalla massiccia concentrazione che caratterizza il nostro panorama mediatico. La bonifica non si otterrà negando o ostacolando ma regolando e distribuendo, sollecitando una più equilibrata allocazione (ed anche questa non è solo questione di norme scritte in una buona legge). Riconosciuta la fondatezza di una visione moderna, si costata che la scelta della Commissione – dichiarata con onestà da Viviane Reding – è aprire le cateratte, e di considerare semmai con particolare attenzione la necessità di preservare l’integrità dei film cinematografici e di non invadere sconvenientemente i programmi per l’infanzia.

 

A Liverpool si è battuto molto (troppo) sulla riconoscibilità e sui diritti dei consumatori, che come si sa, sono sempre ignorati o equivocamente evocati. Non si vede. Tra l’altro, come si possa conciliare lo schermo diviso con il criterio della separazione, dal momento che la separazione visiva – per l’audiovisivo – non è meno importante di quella temporale. Sono da rendere più stringenti alcune delle definizioni in uso o altre che non hanno mai avuto una vera chiarificazione come lo “spot di televendita”, mentre è definita la “finestra di televendita”. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha suggerito nel documento inviato a Bruxelles di introdurre esplicitamente la figura della “telepromozione”, anch’essa assimilata con argomentazioni di comodo. Le stesse “autopromozioni” imperversano fuori da ogni limite: è venuta l’ora di dare ascolto all’invito già formulato nella direttiva vigente ad affrontare il tema. Senza ambire ad una casistica troppo minuta, l’elaborazione del nuovo testo dovrebbe metter capo ad una serie di precisazioni utili per creare un lessico condiviso e quindi atteggiamenti affini su scala europea.

L’idea della proposta avanzata di fissare solo un tetto orario al 20% è inefficace per tutelare il pluralismo dei media e si risolve in un pericoloso arretramento, se non accompagnata dalla garanzia della salvaguardia o del rispetto del film cinematografico che passa in televisione o sul pc. Almeno secondi i ritmi già stabiliti dal testo in vigore.

 

4. Diritto alla cultura e all’informazione

Certi grandi eventi sono ora, sulla base di liste compilate dagli Stati membri, da trasmettere in chiaro almeno per la gran parte del pubblico di un territorio nazionale. Le procedure stabilite sono esposte ad una notevole incertezza. Occorre andare al di là, nell’approvazione degli elenchi presentati, del metodo della “comfort letter” da parte della Commissione, finora in auge, ed è essenziale codificare il diritto di cronaca come diritto a estrapolare brevi citazioni dalle trasmissioni captabili da emittenti europee per impedire che le esclusive acquistate da alcuni grandi gruppi si trasformino in insormontabili ostacoli di carattere monopolistico. Il diritto di cronaca va salvaguardato prevedendo nuove possibilità. La questione dell’accesso ai contenuti diventa sempre più uno snodo strategico e, se non affrontato in pieno in questa direttiva, deve essere almeno impostato o avviato con una certa lungimiranza. E si deve da subito pensare a nuovi sviluppi di ordine generale , sia per i contenuti artistici e culturali, sia per quelli più strettamente informativi. Nella ovvia distinzione tra contenuti informativi in senso stretto e contenuti d’archivio, come i film, investiti da diversi tipi di protezione – tra le quali quelle derivanti dai diritti d’autore e connessi – occorre non perder di vista che la AMSD è un’occasione straordinaria per affrontare sia pure con la misura dovuta il grande e cruciale tema della limitazione delle esclusive e della diffusione della cultura audiovisiva.

5. Quale legge applicare e come combattere la delocalizzazione strumentale

Il principio che un’emittente o un’impresa possono legittimamente operare nello spazio audiovisivo europeo se seguono la legislazione del Paese nel quale operano è un cardine del diritto comunitario e dell’Unione. Che ciò provochi contrasti e scompensi – dal momento che nessuna armonizzazione è completa, per quanto ben intenzionata – è scontato: si deve verificare semmai se siano davvero osservati requisiti minimi e che non siano messe in atto strategie di delocalizzazone al sol scopo di aggirare gli ostacoli e di giovarsi di una legislazione più permissiva di quella in vigore nello Stato al cui pubblico le trasmissione sono rivolte. È indispensabile rafforzare dispositivi che non si sono rivelati pienamente efficaci. La Commissione stessa riconosce che è necessario estendere la procedura prevista dall’articolo 2 bis della direttiva, attivabile quando vengano individuati programmi che nuocciano gravemente ai minori. Nel Consiglio cultura del 23 maggio 2005 si sono rivolti alla Commissione ben tredici governi perché permetta di intervenire a quanti si vedono invasi da programmi destinati essenzialmente al loro territorio in provenienza da altri Stati, magari confinanti. Ci sono sentenze della Corte di giustizia a questo riguardo positive. Si tratta di trovare finalmente i modi ed i tempi giusti per contrastare un fenomeno patologico, che non ha niente a che fare con la costituzione di un più fluido e coeso mercato europeo. Sia autorizzando – in certe situazioni di particolare gravità – ad interdire le trasmissioni di fatto piratesche, sia sorvegliano perché il processo di armonizzazione sia da verro spedito. La questione investe in modo particolarmente preoccupante i nuovi arrivati, in un’Europa a 25 che rischia di trasformarsi in una babele. Il nuovo art. 3 è da accogliere positivamente, perché finalizzato ad evitare delocalizzazioni fraudolente o soltanto speculative.

 

Sono, queste, poco più che prime annotazioni: raggruppate in cinque grandi aree, che sono ancora la struttura portante della direttiva da rivedere. Se affrontati con coraggio e resi più incisivi nelle prescrizioni delineate per coordinare – verbo nuovo – un’attività di coregolamentazione europea – ambizione nuova – dei servizi di radiodiffusione televisiva comunque prestati.I temi raggruppati in questi cinque punti, se adeguatamente sviluppati, potranno dar luogo ad un nuovo quadro normativo più che ad una semplice revisione di quello esistente. Come, del resto, si è fatto per le telecomunicazioni. L’audiovisivo merita un’attenzione minore?

 

Da collegare al lavoro di revisione è un problema più di fondo, talvolta sottovalutato anche a chi ha cuore il futuro dell’immaginario cinematografico europeo. Solo se l’Unione diventerà un soggetto più autorevole e riconoscibile nel turbolento contesto della globalizzazione anche questi obiettivi diventeranno più credibili e attingibili. L’arresto del processo di approvazione del progetto di Trattato costituzionale – finora hanno provveduto alla ratifica 13 Stati – ha effetti deleteri in quest’ambito, come del resto in altri più connessi all’attività tradizionale della Comunità e, più largamente, dell’Unione. Chi si è battuto e si batte per una normativa più avanzata per l’audiovisivo non può dimenticare di battersi per un’Europa dotata di un suo profilo di taglio costituzionale. Altrimenti le lotte di settore o le richieste di riforme e integrazioni non poggerebbero sul terreno che solo può dar loro linfa e vigore. Mancherebbero di motivazione e di convinzione. Potrebbero assumere il sapore di pressioni lobbistiche o scadere a rivendicazioni di sapore corporativo.

 

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