Censura: si complica il rapporto tra Google e la Cina. Pubblicata intanto la lista dei termini sgraditi a Pechino

di Alessandra Talarico |

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Si complica la già controversa presenza di Google in Cina che, secondo la stampa locale, non sarebbe autorizzato a operare nel Paese. Intanto, il Washington Post ha ottenuto e pubblicato la lista delle parole sgradite al governo di Pechino, che comprende 238 termini, dei quali soltanto 18 riguardano  la pornografia. Gli altri sono legati alla politica e a svariati altri argomenti.

Oltre a nomi di personalità invise alle autorità (da Bao Tong a Hu Xingdou) anche espressioni come ‘China liberal’, ‘dipartimento della propaganda’, ‘Patriots Alliance’, ‘banlieu francesi’, ‘indipendenza del Tibet’, ‘questioni ambientali’.

 

Molte di queste parole possono essere ricercate sui siti cinesi, ma la loro digitazione mette subito in allerta i cybercops, che esaminano i messaggi che le contengono e prendono i dovuti provvedimenti.

 

Tornando a Google, il quotidiano cinese Beijing News ha riferito che la società potrebbe dover affrontare qualche problema, legato alla mancanza di una licenza per operare nel Paese.

 

Secondo il giornale, il sito Google.cn, che ha scatenato le polemiche internazionali poiché rivisitato in modo da non urtare la sensibilità del governo cinese, non avrebbe ottenuto  la licenza ICP (Internet content provider), necessaria per operare come fornitore di contenuti in Cina.

 

Un portavoce della società ha riferito che Google condivide  la licenza ICP con la compagnia locale Ganji.com, una pratica seguita da molte aziende internazionali, incluse Yahoo! e eBay, ma il quotidiano riferisce che le operazioni di Google.cn non seguono la prassi stabilita in questi casi e il nome Ganji non compare nei report sulle attività del portale in Cina.

 

Il ministero dell’Informazione si è detto ‘preoccupato’ e avrebbe già lanciato un’indagine per andare a fondo sul problema.

 

Google, Yahoo!, Microsoft e Cisco Systems – sono state fortemente criticate dal governo americano per essersi sottomesse ai dettami del governo cinese in fatto di censura e di aver “decapitato la voce dei dissidenti” del Paese.

 

Una posizione inaccetabile, che ha spinto il deputato Repubblicano Christopher H. Smith a proporre l’introduzione di una nuova legislazione per limitare la capacità delle web company di censurare o filtrare i termini politici o religiosi invisi alle autorità, anche quando questo fosse in contrasto con le leggi in cui esse operano.

 

Battezzato Global Online Freedom Act of 2006, il testo precisa che la censura politica e religiosa degrada la qualità dei servizi di informazione e ricerca su Internet e minaccia, in ultima analisi, l’integrità e l’affidabilità dell’industria, sia negli Usa che all’estero.

 

Nel frattempo, il gruppo di Mountain View ha ribadito, in un documento di 25 pagine, la sua posizione circa il rifiuto di adempiere alla richiesta di fornire al governo, questa volta quello americano, informazioni dettagliate sulle ricerche effettuate attraverso il motore di ricerca dal 1° giugno al 31 luglio dello scorso anno, oltre a un elenco dei siti più richiesti più frequentemente.  

 

La decisione di Google di non fornire alcuna di queste informazioni è motivata dal fatto che il caso costituirebbe un pericoloso precedente e permetterebbe al governo di pretendere altri dati sensibili senza le adeguate motivazioni.  

 

La società, in riferimento al caso in oggetto che risale ad agosto del 2005, ritiene infatti troppo vaghe le ragioni addotte da Washington, ossia la necessità di valutare l’efficacia delle normative e delle tecnologie di filtro adottate per impedire l’accesso dei minori a materiali pornografici.

 

Nel documento, Google spiega che gli utenti “sono sicuri, quando consultano il motore di ricerca, sia che i  risultati saranno attendibili sia che la società non divulgherà i loro dati sensibili senza un valido motivo. Adempiere alla richiesta del governo vorrebbe dire tradire quella fiducia”.

Secondo Google, inoltre, le ricerche via web dovrebbero essere coperte dagli alti standard di protezione garantiti per le email personali dall’Electronic Communications Privacy Act. In questo caso, il governo dovrebbe chiedere l’ordinanza di un tribunale o avvertire ogni singolo utente che le sue informazioni personali sono state rintracciate.

 

La società si dice infine seriamente preoccupata per la circolazione in Rete di contenuti inadatti a un pubblico minorenne, ma questa apprensione “non rende la richiesta del governo accettabile o rilevante ai fini della prevenzione, in quanto i dati richiesti non dicono assolutamente niente circa l’efficacia dei filtri o delle leggi”.