il commento

Chi tocca il Made in Italy accende una guerra culturale

di Fabrizio Fasani, Managing Director – We the Italians. |

Perché i dazi non colpiscono solo l’export: minano la reputazione, la fiducia e l’identità dell’Italia nel mondo.

Nel 1987, parlando del protezionismo giapponese, Ronald Reagan disse: “Quando qualcuno dice: ‘imponiamo dazi sulle importazioni estere’, può sembrare un atto patriottico. Ma le industrie smettono di competere, smettono di innovare. E i dazi portano inevitabilmente a ritorsioni e a guerre commerciali.”

A quasi 40 anni di distanza, queste parole risuonano con forza.

La nuova presidenza americana ha nuovamente riproposto una forma rivista di protezionismo e i dazi, che ne sono lo strumento operativo, sono tornati al centro del dibattito internazionale.

E a farne le spese rischia di essere ancora una volta il cuore pulsante della nostra economia: il Made in Italy.

Ho avuto modo di parlarne al Festival dell’Imprenditore, tenutosi a Roma il 13 e 14 giugno scorso, nel panel dedicato all’export e alle sfide globali dell’AI, con relatori del calibro del Ministro Guido Crosetto, Alessandro Onorato, Fabrizio Lobasso, Paol Capone, Alberto Improda, Maurizio Pimponella, sotto la guida del Presidente di Confimprenditori Stefano Ruvolo.

Il mio intervento – in rappresentanza di We the Italians, realtà che promuove ogni giorno il legame tra Italia e Stati Uniti attraverso la comunità degli oltre 20 milioni di italoamericani – ha voluto portare una chiave di lettura diversa: culturale prima che economica.

I dazi? Il vero danno è invisibile: si chiama perdita di fiducia

Certamente i numeri sono importanti, ma non sono ancora stabili (e probabilmente saranno il nucleo della trattativa internazionale); ma a mio avviso fermarsi a ragionare solo di percentuali o codici doganali è limitativo, ancorchè necessario. Il vero cuore del ragionamento è che i dazi colpiscono simbolicamente.

Quando gli USA impongono un dazio su un pecorino DOP o su una camicia sartoriale napoletana, stanno in realtà intaccando un simbolo riconosciuto nel mondo: il nostro modo di essere, di produrre, di esprimerci.

Il danno immediato – perdita di competitività, aumento dei prezzi – è misurabile; quello più profondo invece no, perchè è reputazionale.

Perdiamo attrattività. Perdiamo spazio narrativo. E quando l’Italia non racconta se stessa, qualcun altro lo fa al suo posto. Spesso male.

È così che prospera l’Italian Sounding: quel fenomeno (legalissimo in molti Paesi) che porta sugli scaffali dei supermercati prodotti come “Romano cheese”, “Milano salami” o “Tuscan Style Olive Oil”, che nulla hanno a che fare con l’Italia vera.

Un mercato del falso che vale più del vero

L’Italian Sounding genera un volume d’affari globale stimato in oltre 100 miliardi di euro. Per fare un confronto: l’intero export agroalimentare italiano si ferma sotto i 40 miliardi. Solo negli USA, le esportazioni totali dall’Italia hanno raggiunto i 64,8 miliardi di euro nel 2024, pari al 10,4% dell’intero export nazionale. È il nostro secondo partner commerciale extra-UE.

Ma ogni dazio aggiuntivo, ogni misura protezionistica, è un regalo all’industria del falso.

E non parliamo solo di cibo. La stessa dinamica si applica alla moda, al design, all’arredo. L’identità italiana viene scimmiottata, svuotata e riproposta in forma low-cost.

Moda e cibo: non beni di consumo, ma linguaggi

Chi lavora nel Made in Italy lo sa; non vendiamo solo prodotti, vendiamo storie, gesti, memoria. Una giacca napoletana cucita a mano, un aceto balsamico invecchiato, un mobile di design sono forme di cultura materiale, traduzioni tangibili di ciò che siamo.

Tuttavia sono prodotti fragili, che hanno bisogno di tutela.

Il dazio colpisce l’intera filiera: dal contadino al distributore, dal laboratorio artigiano allo showroom di Manhattan. Colpisce anche il consumatore americano, che si trova davanti a un bivio: autenticità a caro prezzo o imitazione a basso costo.

La risposta? Una rete umana, non solo un piano commerciale

A questo scenario rispondiamo ogni giorno con il lavoro di We the Italians, costruendo una rete di oltre 70 ambasciatori – uno per ogni Stato USA – formata da imprenditori, professionisti, giornalisti, docenti, tutti uniti da un unico obiettivo: difendere e promuovere l’Italia autentica.

Questa rete non fa lobbying ma costantemente si propone di effettuare educazione culturale. Partecipa a fiere, organizza eventi, parla alle comunità locali.

E ci mostra ogni giorno quanto sia forte il legame affettivo tra gli italoamericani e l’Italia. Un legame che va coltivato.

Made In Italy: serve una strategia nazionale di reputazione

Per affrontare con efficacia i dazi e il dilagare del falso, serve un piano sistemico, basato su quattro linee d’azione:

  1. Diplomazia commerciale proattiva, che unisca imprese, istituzioni e mondo accademico.
  2. Tutela giuridica internazionale del Made in Italy, rafforzando i protocolli di difesa di DOP, IGP, marchi storici.
  3. Educazione dei consumatori esteri, attraverso storytelling, formazione, marketing identitario.
  4. Coinvolgimento strutturato della diaspora come ponte di reputazione tra l’Italia e il mondo.

Un esempio? Stiamo lavorando per coinvolgere chef italoamericani noti a livello nazionale in iniziative che promuovano l’uso di ingredienti autentici italiani.

Una mozzarella vera, un olio extravergine italiano, una pasta trafilata al bronzo: il gusto parla da sé, ma va aiutato a farsi ascoltare.

Un futuro da costruire insieme

Nel mio intervento, ho concluso ricordando una storia: l’azienda che produce più mozzarella al mondo è in Colorado. Fu fondata da un italoamericano negli anni ’50, spinto dal desiderio di ritrovare i sapori della sua infanzia. La sua mozzarella non è come quella campana, ma non finge di esserlo. È un ponte, non un furto.

Ed è questo che dobbiamo capire: l’imprenditore italiano e italoamericano è oggi un ambasciatore culturale. Porta nel mondo non solo beni, ma valori. E ha una responsabilità enorme: quella di custodire la reputazione dell’Italia.

Chi tocca il Made in Italy, accende una guerra culturale. E la risposta non può che essere corale, strategica, appassionata.

Perché Made in Italy non è solo un’etichetta. È una dichiarazione d’identità.

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