L'analisi

5G e digitale terrestre, in Manovra la ‘riforma’ ombra dello spettro italiano (seconda parte)

di Marco Mele, giornalista |

La 'chiave di volta' dell'ex articolo 89, sta nel quinto comma, che segue quello in cui si prevede che l'Agcom approvi il nuovo Piano di assegnazione delle frequenze entro il 31 maggio 2018 nelle sole frequenze attribuite all'Italia dagli accordi internazionali.

La “chiave di volta” dell’ex articolo 89, sta nel quinto comma, che segue quello in cui si prevede che l’Agcom approvi il nuovo Piano di assegnazione delle frequenze entro il 31 maggio 2018 nelle sole frequenze attribuite all’Italia dagli accordi internazionali. Riportiamo per intero la frase che potrebbe rappresentare un radicale cambiamento di prospettiva per tutta l’emittenza televisiva: “..i diritti d’uso delle frequenze di cui sono titolari alla data di entrata in vigore gli operatori di rete nazionali sono convertiti in diritti d’uso di capacità trasmissiva in multiplex nazionali di nuova realizzazione in tecnologia DVB-T2”.  L’intenzione è chiara: finora le emittenti hanno utilizzato una frequenza come una loro proprietà sulla quale diffondere i propri programmi, se non in presenza di obblighi di legge sulla cessione di parte della loro capacità trasmissiva  imposto a determinati a soggetti (facendo finta di non sapere che Dfree ha dato la sua capacità trasmissiva a Mediaset).

Quest’ultima eccezione, ora, diventa la regola per tutti: ciascun soggetto non avrà più, a regime, un tot numero di multiplex (cinque, secondo la vulgata corrente, per Rai e Mediaset) ma un numero di MegaBit di capacità trasmissiva. Quindi: trasmetti i tuoi programmi, in SD o in HD, su, mettiamo, due multiplex e mezzo, per capirsi, magari dividendo il multiplex con altri operatori. Non si scorge, però, un limite alla capacità trasmissiva per operatore.

Alla data di entrata in vigore della legge di bilancio, inoltre, non saranno pronti i multiplex di nuova realizzazione in T2. Quindi la conversione del titolo, in prima battuta, non dovrebbe comportare alcuna “rivoluzione” immediata per gli attuali operatori nazionali di rete. Per i quali si prevede un timing che vede l’Agcom stabilire i criteri per l’assegnazione delle frequenze in banda 470-694 Mhz UHF entro il 30 settembre 2018 e il rilascio dei relativi diritti d’uso da parte del Ministero dello Sviluppo entro il 28 febbrario 2019.

Entro quella data dovranno essere assegnati anche i diritti d’uso delle frequenze in banda VHF III, alla Rai, per realizzare un multiplex “regionale” per la trasmissioni di programmi locali. In questo mux, a regime, il servizio pubblico potrà riservarsi sino al 20% della capacità trasmissiva per programmi contenenti l’informazione regionale.

Prima considerazione: se Rai Tre dovrà essere trasmessa in questo mux, magari insieme a RaiNews24 – dipenderà dal prossimo piano editoriale, da varare entro sei mesi dall’approvazione del prossimo contratto di servizio – cambierà natura e composizione il mux di servizio pubblico della Rai. Sarà quindi estremamente importante, per la Rai, sia la copertura di questo mux in VHF banda III (95% della popolazione) sia la copertura del mux in banda UHF che ospiterà Rai1 e Rai2.

Una considerazione poco discussa ma non evitabile: in molte città e regioni la banda III in VHF non viene ricevuta dagli apparecchi televisivi. Secondo le rilevazioni effettuate da Europa 7, che trasmette anche su questa banda, si tratterebbe di circa dieci milioni di italiani, con città quali Torino e Bari. Il nuovo mux della Rai dovrà quindi essere “parcheggiato” (questo non è scritto nella legge) in frequenze UHF in quelle regioni; come del resto ha fatto Europa 7, che si è fatta assegnare delle frequenze “cerotto” proprio in UHF. Come dire che la Rai, in alcune regioni, dovrà effettuare una doppia conversione di frequenze.

Ora cerchiamo di ricapitolare il tutto, analizzando il sesto comma che contiene l’approvazione della road map italiana. Entro il 30 giugno 2018, seguendo la road map europea, il Ministero dello Sviluppo dovrà varare la tabella di marcia nazionale. Lo farà, fissando un periodo transitorio, dal primo gennaio 2020 al 30 giugno 2022, durante il quale dovranno essere assicurati il rilascio delle frequenze attualmente in uso da parte di tutti gli operatori di rete e la ristrutturazione del multiplex Rai “regionale”. Qui si fa luce su alcuni aspetti degli accordi di coordinamento con i paesi confinanti, perché, nel periodo transitorio dal primo gennaio 2020 al 31 dicembre 2021, gli operatori di rete nazionali, nella banda 700, dovranno liberare solo i canali dal 50 al 53. Ma la banda 700 va dal canale 40 al canale 60 UHF. Queste altre otto frequenze (49.54, sino al 60) , secondo gli accordi presi o in via di definizione entro fine anno, come quello con Francia, Principato di  Monaco e Vaticano, resteranno all’Italia fino al 2022.

Ecco, allora, dove si troveranno le frequenze per il multiplex regionale della Rai, nelle regioni dove non si riceve il segnale in banda III VHF. Sino al 2022, insomma, l’Italia potrà contare non solo su 14 delle 28 frequenze UHF al di sotto della banda 700 UHF (14 andranno alla Francia, ad esempio e agli altri paesi confinanti) più le otto di cui sopra. Fanno in tutto 22 frequenze. Con il passaggio progressivo al nuovo standard che, in Mpeg4, raddoppia la capacità trasmissiva ma che in DVBT2 HVEC la moltiplica ulteriormente, si dovrebbe trovare spazio per tutti (e lasciare invariati assetto e quote di mercato, fatta salvo la variabile Netflix, Amazon e compagnia).

Per le tv locali ci sarà una vera rivoluzione. Perchè, al contrario delle nazionali, dal primo gennaio 2020 al 31 dicembre 2021 dovranno rilasciare tutte le frequenze in uso alla data di entrate in vigore della legge di bilancio, attivando quelle previste dal Piano frequenze 2018 dell’Agcom. Nello stesso arco di tempo la Rai dovrà rilasciare le frequenze utilizzate per il multiplex di servizio pubblico – ne usa 22 diverse nelle varie regioni e aree tecniche -, che adesso contiene anche l’informazione regionale, attivando le frequenze in VHF del relativo multiplex che sarà al 20% utilizzato dalla Rai e all’80% da emittenti locali, a regime. Con l’avvertenza di cui sopra per le aree dove non vi è ricezione della banda III VHF.

Quali emittenti locali avranno la capacità trasmissiva da operatori di rete che sembrano dover essere separati anche proprietariamente dalle emittenti. Quando? Entro il 30 settembre 2018, il Ministero dello Sviluppo, avvia la selezione per assegnare i diritti d’uso sulle frequenze a operatori di rete, che dovranno mettere a disposizione la capacità trasmissiva ai fornitori di servizi media audiovisivi in ambito locale.

Piccola notazione etimologica: nel testo non si parla MAI di fornitori di servizi media audiovisivi in ambito nazionale. Andiamo avanti: le frequenze saranno assegnate secondo diversi criteri entro il giugno 2019. Nel frattempo, entro il 31 dicembre 2018, il Ministero avvia le procedure per predisporre, in ciascuna area tecnica, una graduatoria dei soggetti di servizi media locali abilitati quali fornitori di contenuti. I quali per ottenere la fornitura di capacità trasmissiva dagli operatori di rete (ma chi saranno questi ultimi a livello locale? Consorzi formati dagli attuali operatori?) dovranno sedersi al tavolo della “negoziazione” commerciale. Alla fine, si lascia fare al mercato. Cosa giustissima. Se ci fosse un mercato televisivo.

E’ superfluo ricordare che le emittenti locali godono di contributi pubblici, in parte provenienti dal canone pagato sulle bollette elettriche. Piano B: se i fornitori non raggiungessero l’accordo con gli operatori di rete e fossero in posizione utile nella graduatoria, avranno dal Ministero la capacità trasmissiva residua.

Per questione di spazio, tralascio la questione della Lcn, la numerazione automatica dei canali, che merita un articolo a parte, anche per le modifiche apportate al testo dal Parlamento, che al posto di un nuovo Piano impongono l’aggiornamento esistente, tanto per tutelare ancor più i maggiori operatori.

Non è inutile concludere, invece, con le spese prevista per attuare l’intera procedura. Si tratta, in un arco pluriennale, di 747, 9 milioni di euro, di cui 293 nel 2020 e 272 nel 2022. Saranno ripartiti tra: costi  di adeguamento degli impianti di trasmissione (ben 228 milioni nell’anno 2022); indennizzo agli operatori di rete locali che devono abbandonare le frequenze (230 milioni nel 2020); contributi agli utenti finali per l’acquisto di apparecchi in T2, 25 milioni l’anno dal 2019 al 2022; e spese del Ministero per la predisposizione, l’informazione ai cittadini, il monitoraggio ecc. Oltre a tali spese, ci sono 572mila euro annui dal 2018 al 2022 per la sperimentazione del 5G. (pochi?).

Per le finalità della legge, il Ministero si avvale della collaborazione della Fondazione Bordoni, che assume un ruolo di “assistente in capo alla cabina di regia” per l’abbandono della banda 700 e il lancio della rete in 5G. Fondazione Bordoni che ritrova un ruolo e una ragione di esistere.

Tutto questo con, in mezzo, un’elezione politica (almeno, se  il nuovo Parlamento non verrà anch’esso sciolto in anticipo), due cambi al vertice Rai, uno nel 2018, uno del 2021 e, soprattutto, l’avanzare di una Rete che cambia tutti i paradigmi e le modalità di produzione, distribuzione e consumo dei contenuti audiovisivi finora conosciuti.

Chi vuol essere lieto sia, del doman (forse) non v’è certezza….

2 – FINE (PER ORA)

Leggi la prima parte dell’articolo: “5G e digitale terrestre, in manovra la riforma dello spettro italiano (prima parte)”.