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Facebook-Whatsapp: anche il Garante UK blocca lo scambio dei dati

Nuova battuta d’arresto per l’accordo che prevede il passaggio dei dati degli utenti WhatsApp a Facebook: nel Regno Unito la condivisione è stata interrotta in seguito all’intervento dell’Information Commissioner’s Office.

Il Commissario Elizabeth Denham ha analizzato la questione per 8 settimane, prima di giungere alla conclusione che le sue preoccupazioni circa l’inadeguata protezione dei consumatori erano fondate.

“Non credo che gli utenti abbiano abbastanza informazioni su quello che Facebook ha intenzione di fare coi loro dati e non credo che WhatsApp abbia ottenuto un valido consenso da parte degli utenti di condividere le informazioni”, ha scritto Denham.

“Pensiamo – ha aggiunto – che i consumatori meritino un maggior livello di informazione e protezione, ma finora Facebook e WhatsApp non erano d’accordo. Se Facebook inizierà a utilizzare i dati senza un valido consenso, non esiteremo a prendere provvedimenti”.

Il “data sharing” a scopi pubblicitari tra Whatsapp e Facebook è stato annunciato a fine agosto ed è stato ingegnato per consentire alle aziende di inviare messaggi diretti agli utenti su Facebook, che in totale sono più di 1,7 miliardi a fronte del miliardo di quelli di Whatsapp. Un annuncio che ha fatto scattare l’avvio di una serie di istruttorie da parte del Garante privacy italiano, di quello francese, di quello tedesco, dell’Article 29 Working Group, che raccoglie i Garanti Privacy europei, e anche dell’Autorità antitrust italiana.

Un’operazione che certo non può dirsi inattesa, comunque. Era inevitabile infatti che prima o poi Facebook decidesse di monetizzare l’investimento di 19 miliardi di dollari in Whatsapp. Certo è che questo la dice lunga sul potere di Mark Zuckerberg e sulla sua facoltà di decidere – in maniera che appare del tutto nebulosa e illogica – cosa sia lecito pubblicare sul suo social network senza far scattare le maglie della censura interna.

Negli ultimi giorni, il giovane fondatore di Facebook è stato al centro di forti polemiche legate alle policy che consentono al sito di stabilire se un contenuto è lecito o meno, se possa restare e circolare sulle bacheche del suo miliardo e mezzo e passa di utenti, o debba essere rimosso. Policy che spesso fanno sì che vengano eliminati dal social network immagini di opere d’arte solo perché si scorge un capezzolo ma che non permettono di eliminare pagine inneggianti all’odio o video privati postati illecitamente da terze persone. In Italia è infine arrivata la sentenza del Tribunale di Napoli sul caso di Tiziana Cantone, la giovane napoletana che si è suicidata dopo che in rete erano circolati suoi video hard: il giudice, rigettando il ricorso della società, ha stabilito che Facebook avrebbe dovuto rimuovere il filmato.

“Contenuti come questi vengono rimossi dalla nostra piattaforma non appena ne veniamo a conoscenza. Accogliamo questa decisione perché chiarisce che gli hosting providers non sono tenuti al monitoraggio proattivo dei contenuti”, ha spiegato un portavoce del social network, che ancora una volta, insomma, nega di avere alcuna velleità da media company, sottolinea di non effettuare scelte editoriali di alcun genere, che tutto è regolato da un algoritmo.

In Germania, intanto, Mark Zuckerberg è accusato di incitamento all’odio e negazione dell’Olocausto. La Procura di Monaco ha accolto la denuncia dell’avvocato Chan-jo Jun, che accusa Facebook di non aver rimosso, nonostante le dovute e ripetute segnalazioni, contenuti che palesemente contenevano “istigazioni all’omicidio, minacce di violenza, negazioni dell’olocausto e altri crimini”. Oltre a Zuckerberg, sotto indagine sono anche la direttrice operativa Sheryl Sandberg e il director of policy per l’Europa, Richard Allan.

Pare, insomma, che qualcuno voglia inchiodare Zuckerberg alle sue responsabilità: non si può – ormai sembra chiaro – gestire un luogo frequentato da 1,7 miliardi di persone senza altra regola che quella del proprio profitto. Perché non dimentichiamo che il social network solo nell’ultimo trimestre ha guadagnato oltre 2,3 miliardi dollari e indovinate un po’ vendendo cosa? Per chi ancora non lo sapesse: i nostri dati, le informazioni di tutti quanti noi che riempiamo le nostre bacheche di foto, status, commenti, like – tutti asset che, ceduti alle aziende che fanno pubblicità, si trasformano in denaro sonante.

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