Lo studio

Virus e automazione trasformano il lavoro, entro il 2025 più posti persi che creati. Il Rapporto del Wef

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La velocità con cui si perdono posti di lavoro è maggiore rispetto a quella con cui se ne creano di nuovi. Il Rapporto sul lavoro 2020 del Forum economico mondiale lancia l’allarme: investire subito sulle persone, le competenze e su un nuovo modello di impresa, o quando ripartirà l’economia nell’era post Covid si lasceranno indietro troppi lavoratori.

L’automazione e la digitalizzazione dell’industria odierna hanno dato il via ad un processo di trasformazione del mondo del lavoro di cui ancora non è del tutto chiaro l’esito.

L’industria 4.0 e la transizione digitale sicuramente creeranno nuovi posti di lavoro, nuove professioni e nuove competenze, ma allo stesso tempo spazzeranno via vecchi ruoli e abilità intellettuali non più necessarie.

Il nuovo Rapporto sul lavoro del Wef

Secondo il nuovo “Future of Jobs Report 2020” del Forum economico mondiale (World economic forum o Wef), a questa fase di transizione sistemica si è sovrapposta anche la pandemia di Covid-19, che ha avuto un effetto di accelerazione nella trasformazione del lavoro.

Il virus ha ribaltato ogni situazione in essere al momento del suo arrivo. Ha creato più disoccupazione che la grande recessione del 1929-1932 negli Stati Uniti, aggravando le tensioni sociali e la marginalizzazione di intere categorie, aumentando le disuguaglianze in quasi tutto il mondo.

L’automazione e il digitale è vero che creano nuove opportunità lavorative, ma allo stesso tempo si liberano delle zavorre del passato, eliminando vecchie professioni, creando di fatto disoccupazione tecnologica.

Posti creati vs posti persi

La velocità con cui si creano nuovi posti di lavoro con l’innovazione tecnologica è minore rispetto al tasso con cui se ne distruggono e questo è anche il risultato dell’interazione nefasta tra virus e automazione.

Entro il 2025 si creeranno 97 milioni di nuovi posti di lavoro in 26 Paesi del mondo, ma se ne perderanno 85 milioni.

Non si tratta di licenziamenti o perdita del posto di lavoro in senso tradizionale, ma del fenomeno del “job displacement”: lavoratori dislocati o sfollati, che hanno perso il proprio posto di lavoro a causa di circostanze al di fuori del loro controllo e della loro volontà (appunto, come nel caso della pandemia e del processo di automazione avanzato, con il passaggio di mansioni dagli umani alle macchine).

Generalmente, si parla di lavoratori sfollati a causa di un rallentamento dell’economia che impatta sulla domanda di beni e servizi, o a causa di nuovi processi tecnologici che modificano in profondità il mondo del lavoro (ad esempio la cosiddetta “Quarta rivoluzione industriale”), ma anche per fusioni/acquisizioni di imprese, per chiusure di impianti, per disastri naturali o, come in questo momento, per un’epidemia globale.

Le vittime di questo processo sono le solite figure: donne, giovani e in generale chi svolge ruoli precari e/o di basso profilo economico.

L’80% dei lavoratori si aspetta di lavorare da remoto entro i prossimi anni, con un incremento del livello di automazione delle mansioni all’interno di uffici e impianti produttivi.

Il 50% dei datori di lavoro ha pianificato più livelli di automazione per il proprio business.

Al lavoro con le macchine o disoccupazione

I 97 milioni di nuovi posti di lavoro legati a nuove professioni e competenze saranno comunque il frutto di una nuova divisione del lavoro tra esseri umani, macchine e algoritmi.

Questo significa che il 50% almeno della forza lavoro umana dovrà provvedere all’acquisizione di nuove competenze informatiche e digitali per continuare a svolgere le proprie mansioni, sia vecchie, sia nuove.

Il rischio evocato dati ricercatori è che passata l’epidemia ci ritroveremo a parlare di ripresa del lavoro in un mondo di disoccupati.

Il virus ha già lasciato dietro di sé più di 115 milioni di disoccupati in tutto il mondo e molti altri se ne potrebbero aggiungere nei prossimi mesi, se le Istituzioni, i Governi e le stesse imprese non iniziano ad investire maggiormente sulla formazione dei dipendenti, su un nuovo modello di lavoro (che non sia solo centrato su efficienza e produttività, parametri che riguardano le macchine non gli esseri umani) e non solo sull’innovazione tecnologica.

Governare la transizione

La transizione digitale va governata, così come la trasformazione industriale in chiave 4.0.

I Governi devono immaginare nuovi scenari, calcolando rischi e vantaggi, pianificando sin da subito reti di salvataggio sociali per chi perde il lavoro, redditi universali/di base (ci sono varie opzioni), per chi ne sta cercando uno nuovo, per chi vuole portare avanti attività in proprio e per chi ha bisogno di acquisire nuove conoscenze (termine migliorativo rispetto a competenze, che deriva dal latino “cumpetere“, che adattato al mondo del lavoro sta a significare “competizione“, anche funzionale a gerarchie e comando).

Per creare nuovi posti di lavoro e nuove professioni è fondamentale, infine, anche immaginare una società diversa dall’attuale, quindi investire nelle imprese di domani, nei mercati appena nati e nelle idee più innovative, come l’economia circolare, l’economia verde, le tecnologie pulite, il progresso sostenibile, l’efficienza energetica (tra cui le rinnovabili), salute e istruzione, l’assistenza sociale agli anziani e in generale alle categorie sociali più fragili.