Nuovo crash?

Silicon Valley: troppe startup che giocano a fare Google. E torna lo spettro della bolla

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Le startup della Silicon Valley sanno bene che c’è solo un Twitter, un Facebook, un Whatsapp, ma invece di spendere le ingenti somme che arrivano dai venture capitalist per costruire un business solido spendono in marketing, uffici sfarzosi, stipendi da capogiro e altri benefit inutili.

Quando si pensa alla Silicon Valley americana, inevitabilmente vengono alla mente giovani brillanti che si apprestano a diventare miliardari e ad aziende la cui valutazione toccherà in men che non si dica livelli astronomici. Ma ciclicamente c’è anche chi evoca lo spettro della bolla scoppiata tra il vecchio e il nuovo millennio, nota come il crash delle dotcom.

A farlo stavolta, non sono i soliti complottisti, ma  alcuni importanti venture capitalist, che nella tech economy hanno investito parecchi soldi: il loro timore è che molte aziende che hanno costruito il loro successo sulle nostre app preferite stanno spendendo troppi soldi per un business senza fondamenta solide e quanto prima pagheranno cara questa loro avventatezza.

In un’intervista al Wall Street Journal, Bill Gurley – considerato da Forbes uno dei Re Mida dell’hi-tech e che con la sua Benchmark ha investito miliardi di dollari in aziende come Uber e OpenTable – ha lanciato l’allarme sul fatto che le start-up stanno letteralmente bruciando un sacco di soldi e che il rischio è ‘senza precedenti’ se si esclude la bolla del ‘99.

Gli fa eco Fred Wilson di Union Square Ventures (che ha investito in Twitter, Tumblr e Zynga) secondo cui sono le diverse le aziende della Silicon Valley che, appena uscite dalla fase di startup, stanno bruciando diversi milioni di dollari al mese (la media, per gli analisti di PitchBook è di 1,82 milioni di dollari al mese).

Anche Marc Andreessen, di Andreessen Horowitz ha avvertito che quando “il vento cambierà, e cambierà, molte di queste aziende evaporeranno”.

A spingere queste spese ‘folli’, secondo il parere del venture capitalist Bill Reichert del fondo Garage Technology Ventures, è la forte competizione tra le principali startup. Aziende come Uber, ad esempio, cercano di ovviare allo scarso vantaggio tecnologico sui rivali come Lyft, ingaggiando vere e proprie ‘battaglie campali’ sul versante marketing per conquistare quote di mercato.

Le aziende della Silicon Valley, spiega Reichert alla BBC, sanno bene che c’è solo un Twitter, un solo Facebook, un solo Whatsapp anche se ci sono molte altre app simili e scalare la classifica per arrivare a essere numeri uno costa un sacco di soldi.

E così, anche se molte di queste aziende attraggono ingenti somme di denaro da parte dei venture capitalist (Uber ad esempio a luglio ha raccolto 1,2 miliardi di dollari)  continuano a spendere in pubblicità, nel tentativo di guadagnare quote di mercato.

Ma non solo, sono molte quelle che offrono stipendi da capogiro ai loro collaboratori o ancora spendono in uffici eccessivamente sfarzosi e in tanti altri benefit inutili come se avessero già raggiunto la vetta e gli investitori non possono fare altro che continuare a finanziarle anche se non generano profitti.

Anche se ci sono buone ragioni per dubitare che possa ripetersi quanto accaduto nel 1999, quando lo scoppio della bolla delle dotcom costò 5 trilioni di valore di mercato, ci sono alcuni segnali che fanno pensare – dal fallimento, nel 2011, della start-up Solyndra (energia solare), che ha bruciato un miliardo di dollari di finanziamenti alla chiusura di Better Place (batterie per auto elettriche) dopo la perdita di 850 milioni di dollari.

I rischi, rispetto al ’99 sono molto diversi – difficile un crash a livello macroeconomico, dicono gli analisti – ma gli effetti potrebbero essere devastanti, stavolta, per l’innovazione.

Secondo un recente studio di CB Insight, il 42% delle startup fallite attribuisce la colpa della debacle alla mancanza di domanda per il loro prodotto. Il timore è che i venture capitalist, anche se abituati ai fallimenti, quando si scottano seriamente, tendono a stare ben lontani da un certo tipo di investimenti. Questo vuol dire, non solo meno app sul mercato ma anche un danno per le maggiori aziende hi-tech, che spesso acquistano le nuove tecnologie di cui necessitano dalle startup invece che farsele in casa.

E’ come, insomma, se le startup siano diventate la divisione ‘Ricerca e Sviluppo’ delle aziende più grandi.

A parte questo contributo, resta comunque il fatto che se si vuole emergere dalla folla, prima o dopo “bisogna costruire un vero business, generare veri profitti, sostenere l’azienda senza dover ricorrere agli invertitori e iniziare a generare valore alla vecchia maniera”, ha affermato ancora Fred Wilson.