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Pubblicità, come gli algoritmi ci fanno spendere di più online

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Sappiamo che hanno fatto guadagnare miliardi di dollari a Zuckerberg e a Google, o che sono loro a consigliarci le canzoni da ascoltare su Spotify in base ai nostri gusti. Ecco come funziona l'algoritmo.

Rubrica settimanale SosTech, frutto della collaborazione tra Key4biz e SosTariffe. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Occulto, capacità di vedere il futuro o – peggio – leggere le nostre menti. Tutte spiegazioni che ci sembrano perfettamente plausibili quando il nostro social network del momento ci scodella proprio la pubblicità di quell’oggetto che, guarda un po’, stavamo giusto pensando di comprare. E poi la parola che sembra riportare tutto nell’alveo della razionalità: ah, ecco, è vero: è l’algoritmo.

Algoritmi di Facebook, Google, Amazon

Abbiamo imparato a conoscerli, ormai, anche se non li capiamo davvero. Sappiamo che hanno fatto guadagnare miliardi di dollari a Zuckerberg e a Google, o che sono loro a consigliarci le canzoni da ascoltare su Spotify in base ai nostri gusti.

E sempre gli algoritmi ci fanno spendere molto di più di quanto avevamo preventivato con lo shopping online; magari ci serviva soltanto un trapano nuovo, alla fine nel nostro carrello spuntano chiavette USB in offerta speciale, pacco da tre. Una friggitrice ad aria che non sapremo dove mettere in cucina. Il costume di Frozen per la nipote.

Tutto merito, ancora, dell’algoritmo. Che ci suggerisce al momento giusto la promozione perfetta o l’acquisto che si abbina perfettamente con ciò che abbiamo già comprato. Ma come fanno? C’è del lavoro, dietro, molto, e sovente ha un nome inquietante, come ad esempio dark pattern.

Algortimi e la tentazione del clic

Man mano che lo shopping online diventa sempre più fondamentale (grazie anche ai prezzi in calo per le offerte di telefonia mobile, come mostra il comparatore di SosTariffe.it), le compagnie spendono sempre di più per un’offerta pubblicitaria accattivante. La recente ricerca commissionata da Google a Ipsos per analizzare i rapporti tra acquisti offline e online, il Global Retail Study, ha rivelato che nel nostro Paese il 96% utilizza il web in almeno una fase dell’acquisto, dalla semplice ricerca di informazioni su un prodotto alle recensioni, fino ovviamente all’atto vero e proprio del comprare.

Ecco perché già dal primo impatto tutto deve essere curato fino all’ultimo dettaglio, non sia mai che il potenziale acquirente si distragga e passi oltre, invece di cliccare su quel pulsante “scopri di più” che promette splendidi misteri.

E la tentazione è ancora più forte quando il banner pubblicitario è accompagnato da messaggi apocalittici: attenzione, perché ci sono ancora uno o due prodotti di questo genere in magazzino, poi chissà dopo quanto torneranno in inventario; approfittatene, perché stiamo per chiudere il negozio e aprire un agriturismo in collina.

Il black friday di Amazon

Lo sa bene Amazon, che negli anni ha trasformato il suo Black Friday mettendo a punto un procedimento diabolico di offerte e controfferte con scadenza, segnalate da timer che inesorabilmente procedono verso lo zero, secondo dopo secondo. E se una promozione del genere non tornerà mai più? E se me ne pentirò, tra tre mesi, quando questo paio di auricolari a prezzo stracciato mi servirà davvero?

Lo stesso accade per le prenotazioni online di alberghi o bed and breakfast: possibile, insomma, che ogni singola camera che ci interessa su Booking.com è l’oggetto del desiderio di altre dodici persone e che rimangono solo due stanze simili?

Gli “schemi oscuri” della pubblicità

Una ricerca di un team di ricercatori di Princeton e dell’Università di Chicago ha trovato su 11.000 siti web con possibilità di acquisto online ben 1.800 esempi di questi “dark pattern” o “schemi oscuri”. In pratica, si tratta di decisioni relative all’interfaccia che spingono l’utente a compiere un’azione ben determinata: comprare.

Pensate alle compagnie aeree: prezzi bassissimi, vero, ma man mano che andate avanti nella procedura d’acquisto verrete bombardati da proposte di scelta dei posti sul velivolo, bagagli aggiuntivi, assicurazioni, auto a noleggio con sconti incredibili, che dovrete schivare senza perdere un secondo la concentrazione.

I dark pattern

In altri casi, i “dark pattern” spingono non disiscriversi a quella newsletter o a quel servizio che può inondarci la casella di posta con pubblicità assortite. Provate, ad esempio, ad attivare un abbonamento con Dropbox e poi dopo qualche tempo a cancellarlo: dovrete sfidare almeno cinque o sei schermate in cui il servizio di cloud storage vi chiederà se siete proprio sicuri, ma sicuri sicuri, ma davvero sicurissimi di rinunciare (ha un nome: “confirmshaming”), e nel frattempo vi sposterà tutti i bottoni il cui significato è “Sì, ne sono certo, grazie” in luoghi impensati, con la speranza che alla fine perdiate la pazienza e rimaniate iscritti.

Allo stesso modo, lasciare la propria e-mail oggi significa cercare con la massima attenzione il box con su scritto “Non voglio ricevere informazioni pubblicitarie”, quando una volta era necessaria l’azione opposta per riceverle. Adesso la norma è dire “sì” a tutto: anche all’acquisto compulsivo.

L’altro lato della medaglia: la “non-pubblicità” virale

Non sempre l’algoritmo è perfetto, beninteso: un esempio sono gli assurdi oggetti che Wish, il colosso orientale della distribuzione, ci proponeva fino a poco tempo fa di acquistare a pochi euro. Questi infatti si basavano su un meccanismo nell’algoritmo di Facebook (Wish è infatti tra i maggiori inserzionisti sul pianeta del social di Zuckerberg) che pubblicizzava più spesso gli oggetti maggiormente cliccati all’interno di un catalogo. Il problema è che gli utenti, incuriositi, finivano con il guardare soprattutto le pubblicità con gli oggetti più strani e inspiegabili, creando uno strano circolo per cui più giravano prodotti assurdi più venivano riproposti.

E se da una c’è parte l’algoritmo, dall’altra anche la pubblicità classica è sempre meno tradizionale. Un articolo del New York Times ha parlato del “viral non-ad” come possibile futuro dell’advertising; in altre parole, un filmato che menziona soltanto di passaggio il prodotto pubblicizzato ma che viene condiviso da decine, se non centinaia, di milioni di persone perché particolarmente ben fatto e, in una parola, virale. Esempio: la nuova applauditissima pubblicità della Renault Clio, un mini-film muto in due minuti sulla storia d’amore trentennale di due giovani donne, in cui l’auto, a dire la verità, è sempre presente, ma se non ci fosse quella brevissima sovraimpressione – “The all-new Renault Clio” – rimarremo con l’idea di avere appena visto il trailer di un nuovo film su Netflix.

Insomma: camuffatela o infilatela sotto il tappeto, la pubblicità, ma fate che s’insinui, non che s’imponga – e continueremo a essere convinti di scegliere con la nostra testa.

Fonti