La polemica

Processo Civile Telematico, i magistrati ‘allergici’ al digitale

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Continua la battaglia dei giudici contro il Processo Civile Telematico che secondo l’ANM ‘svilisce’ la professione e rallenta i tempi di studio delle cause

Continua la battaglia dell’ANM (Associazione Nazionale Magistrati) contro il Processo Civile Telematico. Troppo importanti le vecchie “carte” processuali per i giudici, che in più considerano “degradante”  il nuovo compito di controllare se i documenti del fascicolo processuale siano stati effettivamente depositati in digitale.

Un “evidente svilimento” della professione, come se gestire i documenti in digitale fosse un demansionamento professionale, roba da cancellieri e giovani avvocati, una perdita di tempo e una sorta di lesa maestà nei confronti della carta, unico strumento degno di attenzione per i giudici.

Insomma, la strada per il Processo Civile Telematico sembrerebbe in salita e lo scontro cova sotto le ceneri nel rapporto sempre teso fra Ministero della Giustizia e Magistratura.

Le resistenze nei confronti del PCT partono da lontano. Da subito l’ANM ha criticato la novità, da quando il 30 giugno 2014 è entrato in vigore l’obbligo di depositare gli atti digitali nei processi di primo grado, esteso da giugno 2015 alle corti d’appello, a breve anche in Cassazione.

Eppure il sistema funziona: giudici e avvocati possono confrontarsi online, accedere al fascicolo processuale da un’apposita console e consultare tutti gli atti quando vogliono. Il provvedimento, secondo stime recenti, ha generato risparmi per 48 milioni di euro soltanto in notifiche. In un anno sono stati postati 13 milioni di atti digitali e il Ministero si è impegnato a spendere 147 milioni di euro per la rete digitale.

Ma è di pochi giorni fa una nota del Comitato Direttivo Centrale dell’Anm che non lascia spazio a dubbi sullo stato d’animo refrattario dei magistrati nei confronti del digitale.

In primo luogo, le toghe denunciano le ricadute sul magistrato di compiti e funzioni della cancelleria (ad oggi, il giudice deve controllare, in ogni fascicolo di udienza, se vi sia stato il deposito di atti e documenti e provvedere all’apertura degli allegati e alla stampa del relativo contenuto e inserimento nel fascicolo; anteriormente alla citata riforma detta incombenza era limitata ad atti e documenti depositati successivamente agli atti introduttivi dalle parti già costituite, oggi detta attività riguarda ogni atto e documento del processo)”.

Il secondo motivo di contestazione riguarda “il conseguente aggravio di responsabilità del giudice, cui è demandata un’attività prima attribuita al personale di cancelleria (acquisizione dell’atto e inserimento nel fascicolo)”.

In terzo luogo, le toghe lamentano “il rallentamento dei tempi di studio della causa, tenuto conto della non duttilità dello strumento informatico, che non consente l’immediata individuazione degli atti depositati, e dei tempi necessari per l’espletamento delle attività sopra citate”.

La bordata finale nei confronti del PCT, che al momento si trova in regime ibrido (atti cartacei e digitali a comporre il fascicolo), arriva infine quando i magistrati ribadiscono che la nuova modalità non può in alcun modo comportare l’abbandono del fascicolo cartaceo, il cui mantenimento non può però gravare sulle spalle dei magistrati.

E chi si deve occupare del cartaceo? Secondo i magistrati è compito dell’Avvocatura. Sono gli avvocati che devono farsi carico del deposito della cosiddetta “copia di cortesia” degli atti (appena pubblicati in Rete) a loro spese per la consegna a mano al giudice.

Un colpo basso per i giovani avvocati, che nel digitale avevano sperato molto per evitare appunto la duplicazione degli atti. Ma per ora vince ancora la carta, ben lontana dall’abbandonare la scena. Anzi.