la sentenza

Mediaset, Corte di Giustizia dà ragione a Vivendi ‘Legge Gasparri contraria a diritto Ue’

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Per i giudici del Lussemburgo la norma italiana che “impedisce a Vivendi di acquisire il 28% del capitale di Mediaset” “è contraria al diritto dell’Unione“ .

La Corte di Giustizia europea ha accolto il ricorso di Vivendi sul Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici della legge Gasparri (Tusmar). Per i giudici del Lussemburgo la norma italiana che impedisce a Vivendi di acquisire il 28% del capitale di Mediaset “è contraria al diritto dell’Unione .

Di fatto, la Corte di Giustizia ha seguito il parere analogo espresso a dicembre dello scorso anno dall’avvocatura generale, che aveva già bocciato lo stop deciso a suo tempo dall’Agcom alla scalata di Vivendi a Mediaset, dopo la mancata acquisizione di Premium. Secondo l’avvocato generale, la decisione dell’Authority è stata sproporzionata rispetto alla sua finalità di tutela del pluralismo dell’informazione, mentre la doppia partecipazione in Tim e Mediaset da parte di Vivendi non giustificherebbe il provvedimento. 

Sulla base del Tusmar, la cosiddetta Legge Gasparri, l’Agcom ha imposto a Vivendi di mantenere una partecipazione in Mediaset inferiore al 10% dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea Mediaset proprio in considerazione del fatto che l’intera quota detenuta dai francesi violerebbe il Tusmar a causa della contemporanea presenza del gruppo di Vincent Bollorè in Tim, con una quota del 23,94%. Nessun rischio poi, secondo al Corte, sotto il profilo del pluralismo dell’informazione.

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Mediaset ‘Pronti a valutare ingresso in mercato Tlc’

Pronta la replica di Mediaset. L’azienda “prende atto dell’odierna sentenza della Corte di Giustizia europea”. In una nota il Biscione sottolinea che “si tratta di rilievi che dovranno essere esaminati nelle successive fasi di giudizio davanti al Giudice nazionale competente e su cui si confida che l’Autorità garante per le Comunicazioni possa fornire ogni opportuno chiarimento”. In più, prosegue il comunicato, “l’Autorità dovrà valutare i rischi per il pluralismo, valore fondamentale per lo stesso diritto dell’Unione Europea, derivanti dalla possibilità illimitata per le imprese dominanti nelle Telecomunicazioni di rafforzare la propria posizione nel settore Media”. Infine, la società sottolinea che “se, al contrario di quanto prevede oggi la Legge italiana, si aprissero possibilità di convergenza tra i leader delle Tlc e dell’editoria televisiva, Mediaset che in tutti questi anni è stata vincolata e penalizzata dal divieto valuterà con il massimo interesse ogni nuova opportunità in materia di business Tlc già a partire dai recenti sviluppi di sistema sulla Rete unica nazionale in fibra”. In altre parole, se il contesto è davvero mutato, Mediaset potrebbe pensare di entrare in qualche modo nella partita in atto sulla rete unica.

Scalata ostile del 2016

Il verdetto riguarda la scalata del 2016 definita ostile da Mediaset da parte di Vivendi al Biscione controllata da Fininvest, giungendo ad acquisirne il 28,8% del capitale sociale, pari al 29,94% dei diritti di voto.

Mediaset ha denunciato Vivendi dinanzi all’Agcom, accusandola di aver violato la disposizione italiana che, allo scopo di salvaguardare il pluralismo dell’informazione, vieta a qualsiasi società i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche, anche tramite società controllate o collegate, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel «sistema integrato delle comunicazioni» (SIC) ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo in Italia. Ciò avveniva nel caso di Vivendi, che già occupava una posizione rilevante nel settore italiano delle comunicazioni elettroniche, in virtù del suo controllo su Tim.

Provvedimento Agcom

Con una delibera del 2017 l’Agcom ha accertato che Vivendi, avendo acquisito le predette partecipazioni in Mediaset, aveva violato tale disposizione italiana e le ha ordinato di porre fine a tale violazione.

Pur ottemperando all’ordine dell’Agcom, trasferendo ad una società terza (Simon Fiduciaria) la proprietà del 19,19% delle azioni di Mediaset, Vivendi ha fatto ricorso al Tar del Lazio chiedendo l’annullamento della delibera.

In tale contesto, il Tar del Lazio chiede alla Corte di giustizia, in sostanza, se la libertà di stabilimento sancita dall’articolo 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) osta alla normativa di uno Stato membro che ha l’effetto di impedire ad una società di un altro Stato membro, i cui ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche a livello nazionale, anche tramite società controllate o collegate, sono superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel SIC ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo.

Con l’odierna sentenza, la Corte risponde a tale domanda in senso affermativo.

Motivazioni

La Corte ricorda, innanzitutto, che l’articolo 49 TFUE osta a qualsiasi provvedimento nazionale che possa ostacolare o scoraggiare l’esercizio, da parte dei cittadini dell’Unione, della libertà di stabilimento garantita dal TFUE. È questo il caso della normativa italiana che vieta a Vivendi di mantenere le partecipazioni che essa aveva acquisito in Mediaset o che deteneva in Telecom Italia, obbligandola quindi a porre fine a tali partecipazioni, nell’una o nell’altra di tali imprese, nella misura in cui esse eccedevano le soglie previste.

La Corte osserva inoltre che, anche se una restrizione alla libertà di stabilimento può, in linea di principio, essere giustificata da un obiettivo di interesse generale, quale la tutela del pluralismo dell’informazione e dei media, ciò non avviene nel caso della disposizione in questione, non essendo quest’ultima idonea a conseguire tale obiettivo.

La Corte ricorda, a tale proposito, che il diritto dell’Unione, per quanto riguarda i servizi di comunicazione elettronica, stabilisce una chiara distinzione tra la produzione di contenuti e la loro trasmissione. Pertanto, le imprese operanti nel settore delle comunicazioni elettroniche, che esercitano un controllo sulla trasmissione dei contenuti, non esercitano necessariamente un controllo sulla produzione di tali contenuti. Ebbene, la disposizione in questione non fa riferimento ai collegamenti tra la produzione e la trasmissione dei contenuti e non è neppure formulata in modo da applicarsi specificamente in relazione a tali collegamenti.

Settore dei media definito in modo troppo restrittivo

La Corte rileva, peraltro, che la disposizione in questione definisce in modo troppo restrittivo il perimetro del settore delle comunicazioni elettroniche, escludendo in particolare mercati che rivestono un’importanza crescente per la trasmissione di informazioni, come i servizi al dettaglio di telefonia mobile o altri servizi di comunicazione elettronica collegati ad Internet nonché i servizi di radiodiffusione satellitare. Ebbene, poiché essi sono divenuti la principale via di accesso ai media, non è giustificato escluderli da tale definizione.

La Corte constata, inoltre, che equiparare la situazione di una «società controllata» a quella di una «società collegata», nell’ambito del calcolo dei ricavi realizzati da un’impresa nel settore delle comunicazioni elettroniche o nel SIC, non appare conciliabile con l’obiettivo perseguito dalla disposizione in questione.

La Corte conclude che la disposizione italiana fissa soglie che, non consentendo di determinare se e in quale misura un’impresa possa effettivamente influire sul contenuto dei media, non presentano un nesso con il rischio che corre il pluralismo dei media.