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La violenza digitale, perché il web si fa portavoce di malessere

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Il web si fa portavoce di disagio, di violenza epidemica che vuole essere mostrata, forse per essere esorcizzata ma che agli occhi di tutti appare come il disagio di una civiltà, per riprendere la lettura psicoanalitica, in cui si coglie con mano la mancanza di un padre totemico.

Mondo reale e mondo digitale oggi sono tutt’uno formando un’alchimia in cui spesso, e soprattutto per le nuove generazioni che non hanno memoria storica di un’assenza degli schermi, si ha difficoltà a tracciare una linea di distinzione tra un’azione messa in rete da quella attuata nella realtà.

Già da piccolo il bambino è abituato ad essere fotografato e ad essere presente nello schermo che diventa nel corso del tempo il diretto testimone delle sue azioni e del suo agire digital-reale.

Agire che ferma e sigla ogni avanzamento tracciandolo nella sequenzialità di orme digitali desiderose di conquista e di definizione di uno spazio virtuale immenso che si colora di un Me-Noi, baluardo tangibile del senso vitale che ogni appropriazione comporta.  

Si fa, si agisce, si segna la traccia con foto e video, si immette in rete, si osservano reazioni e così facendo si rischia di perdere il senso e il valore dell’esperienza attuata che si colora invece delle leve motivazionali che alimentano l’essere presenti nei social. Azioni che vengono attuate con l’obiettivo principale di essere trasmesse online spaziando dalla scelta dei viaggi, dei vestiti, della festa a violenza, a rivendicazione e violazione che nel fuori del digitale perde il valore del dentro reale.

Le leve motivazionali che spingono a voler conquistare il baluardo dell’onnipresenza digitale, quel divenire famosi agli occhi del mondo, possono su menti fragili spinte da brame di protagonismo, trasformarsi in assenza di valori e violenza che si immette in rete nel desiderio forse inconsapevole di espirare una colpa ma con l’obiettivo consapevole di fra vedere a tutti quello che IO-NOI siamo in grado di fare. Ci vuole coraggio per essere violenti, per calpestare l’altro, per testimoniare la sua rovina e il premere il tasto per caricare un video o una foto che alimenta la nostra carica adrenalinica, ci fa dimenticare quel che si sta facendo anche se quel fare sta uccidendo una persona, il suo valore, la sua privacy, la sua identità. Si è violenti e si sigla la violenza con la propria firma, con quella del gruppo che si gonfia narcisisticamente della presenza digitale senza badare al fatto che così facendo si cancella e si oscura il suo valore e la sua presenza reale.

Si è violenti, si fa del male, si cattura con la telecamera la violenza, si testimonia quanto “siamo” cattivi, malvagi, forti, vendicativi e quanto siamo presenti e seguiti online. Senza nessi e senza nesso i giovani, nella loro traversata dalla magia dell’infanzia alla responsabilità adulta, lo sono sempre stati e il branco che calpesta il più debole per tagliare di netto dalla propria vista la fragilità, ha sempre agito con conseguenze nefaste e distruttive. Oggi l’agito distruttivo non viene celato ma anzi viene fatto rivivere, viene diffuso e osservato nel mondo digitale, che non è un mondo fuori da sé ma rappresenta il depositario di un Sé-Noi carico di autenticità distruttiva che nel cancellare fragilità potenzia disagi, fallimenti educativi.

Il web si fa portavoce di malessere, di disagio, di violenza epidemica che vuole essere mostrata, forse per essere esorcizzata ma che agli occhi di tutti appare come il disagio di una civiltà, per riprendere la lettura psicoanalitica, in cui si coglie con mano la mancanza di un padre totemico che guida, fornisce contenimento e definisce il confine tra spinte istintuali distruttive e benessere individuale e collettivo. Non si può abbassare lo sguardo di fronte alla violenza e alla distruttività che oggi viene immessa in rete ma si deve cogliere il segnale per ricordare che la “vita non è un gioco” e la conquista di uno spazio e di un senso vitale ha bisogno di una costruzione di valori che partono sempre e da sempre dall’esempio dei grandi. Non si perde virtù se si vede virtù.