l'indagine

Immuni, Federico Cabitza (Univ. Milano-Bicocca): “Se le prove di efficacia non arrivano dall’alto, lanciamo una ricerca dal basso”

di Federico Cabitza, Professore di Sistemi Informativi e Interazione Uomo-Macchina all’Università degli Studi di Milano-Bicocca |

Anche noi, nel nostro piccolo di ricercatori e “scienziati dei dati”, vorremmo contribuire a stimare l’impatto di quello che sembra un esperimento sociale senza precedenti, applicato su scala nazionale dopo una “sperimentazione” nel mondo reale di appena sette giorni.

Oggi lunedì 15 Giugno il servizio dell’app immuni viene attivato su tutto il territorio nazionale. Ciò accade dopo un periodo di rodaggio, forse troppo ambiziosamente denominato di sperimentazione, che si è svolto in 4 regioni ed è durato appena una settimana: abbastanza per comprendere i principali problemi di compatibilità con dispositivi vecchi o non aggiornati (si pensi al problema riguardo ai dispositivi Huawei e Honor e a tutti i modelli più vecchi di 5 anni) e per intercettare i principali problemi di usabilità e sicurezza su tutte le tipologie di utente (dal luser all’hacker); decisamente troppo poco per raccogliere, e soprattutto analizzare, dati dirimenti sulla efficacia dell’app. Ovviamente non pensiamo che questi dati (più avanti diremo quali possono servire) non siano raccolti dai gestori del servizio; ma riteniamo che non condividerli con ricercatori indipendenti limiti di molto il dibattito sull’utilità di uno strumento che richiede comunque un importante dispiego di forze da parte di strutture pubbliche. È inoltre probabile che la campagna di comunicazione e promozione dell’uso di questo strumento si farà ingente nei prossimi giorni, anche per quel fenomeno che Nardelli ha denominato “fatequalcosite” e che riguarda i tentativi più o meno fondati su evidenze scientifiche che sono messi in atto dai decisori politici per dimostrare che stanno facendo qualcosa per gestire adeguatamente l’emergenza. Ma proprio perché l’eco mediatico su questa app raggiungerà il suo culmine nei prossimi giorni, di seguito vogliamo cercare di capire quali sono gli elementi ancora poco chiari di questa strategia. 

Le persone che hanno scaricato l’app, ad oggi, sono state circa 2 milioni e mezzo. La popolazione sopra i 14 anni delle regioni in cui è stato attivato il servizio comprende poco più di 7 milioni di abitanti; quindi una stima conservativa e ottimistica (perché comprende anche i molti curiosi che possono aver scaricato l’app pur non abitando in quelle regioni) è che l’app sia stata scaricata da circa un terzo delle persone che avrebbero potuto farlo. In effetti una indagine Demos, rilanciata da numerose testate giornalistiche, ha rilevato come appena poco più di un terzo degli Italiani si sia dichiarato intenzionato a scaricare l’app. Assumendo questo dato come fondato, e arrotondandolo per eccesso al 40%, siamo ben lontani dalla soglia, indicata in un famoso (e dibattuto) articolo apparso su Science, del 60% perché la app possa dimostrare una buona efficacia. D’altro canto, anche l’app più usata dagli Italiani, WhatsApp, è usata da “appena” 33 milioni di persone, che equivale a circa il 75% di quelli che possiedono uno smartphone e ad appena il 60% dei cittadini Italiani sopra i 14 anni. Ricordiamo che un semplice conto ci permette di stimare che se anche 4 Italiani su 10 usassero l’app, solo 16 contatti su 100 potenzialmente infettivi potrebbero essere tracciati. 

Si è detto che l’app considera un contatto potenzialmente a rischio quando questo è “stretto” secondo la definizione del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie: cioè se è ravvicinato (distanza minore di 2 metri, associata ad una attenuazione del segnale del Bluetooth di circa 73 dB) e, soprattutto, prolungato (più di 15 minuti). Questa configurazione, anche se “è stata adottata per ridurre al minimo i falsi positivi” pone un rischio di privacy che non è di livello tecnico –livello riguardo cui l’app immuni è effettivamente un ottimo prodotto come anche certificato da diverse fonti, ma sostanziale: infatti, per poter stimare il periodo di incubazione e quindi la durata dell’eventuale quarantena, l’app notifica all’utente a rischio anche il giorno in cui il potenziale contatto infettivo avrebbe avuto luogo; a seconda della intensità della loro vita sociale, questa semplice indicazione potrebbe permettere agli utenti di ricostruire chi sia stata la persona con cui si siano intrattenuti in un contatto ravvicinato così prolungato, alimentando così sospetti su un aspetto molto delicato (un tempo definito sensibile) relativo alla salute di colleghi e conoscenti. 

D’altro canto, è difficile stimare quale sia la proporzione dei contatti veramente contagiosi rispetto a quelli che il modello ritiene a basso rischio: questo ultimo punto riguarda la questione, mai veramente dibattuta, dei falsi negativi. Quanti possono essere i contatti ravvicinati, ma più brevi di 15 minuti, che non sarebbero rilevati sul numero totale? Anche un bacio sulle guance tra parenti non sarebbe rilevato, né una stretta di mano tra amici e colleghi, o l’esposizione accidentale ai droplets di una persona che ha starnutito o tossito nelle vicinanze, anche qualche secondo prima del nostro passaggio. Viceversa, anche quando parliamo con una persona per più di 15 minuti, la app potrebbe considerarci più lontani di quanto siamo effettivamente stati se la borsa, tasca o zaino in cui anche uno solo dei due avesse tenuto il proprio cellulare avesse attenuato il segnale in maniera importante, come se fossimo stati a decine di metri di distanza a campo libero. Opposto ma altrettanto rilevante potrebbe essere il problema dei falsi positivi: due persone potrebbero essere state a 2-3 metri di distanza per più di 20 minuti, ad esempio perché pendolari sullo stesso treno o in fila allo stesso sportello ma, poiché non sono state “faccia a faccia”, non hanno parlato tra loro e hanno indossato presidi di protezione adeguati (in primis mascherine indossate correttamente), potrebbero aver corso un rischio di contagio molto più basso di quello stimato dall’app in base al suo modello (che mostriamo in Figura 1).

Eppure, si potrebbe obiettare, male che vada immuni non serve, ma male non può fare. Non è esattamente così: un falso positivo è molto più che un semplice falso allarme. Quando si riceve una notifica dalla app perché si è ritenuti un contatto a rischio di una persona trovata positiva al COVID-19, si è invitati a contattare il proprio medico di famiglia e a seguire le sue indicazioni. Se ci si atterrà a queste indicazioni, superando ogni calcolo opportunistico che potrebbe suggerire di non farlo, è probabile che il medico di famiglia  suggerisca di contattare le autorità sanitari o i servizi regionali preposti alla gestione delle liste d’attesa per essere sottoposti un tampone nasofaringeo, e che nel frattempo si sia  invitati a isolarsi in quarantena volontaria. Assumendo una aderenza perfetta a queste indicazioni, dovremmo pensare non solo allo stress psicologico che questa indicazione potrebbe causare alla persona in questione e ai famigliari con cui convive, ma anche al danno economico di questa sospensione da attività produttive. È quindi lecito chiedersi quante giornate di lavoro totali potrebbero andare perse in attesa che sia fatto un tampone e comunicato il risultato a tutte le persone che hanno ricevuto una notifica dall’app. Il suo modello è calibrato per innescare un numero elevato di queste notifiche? Le cronache parlano di soli 3 casi accertati come positivi al COVID-19 (in Liguria) nella settimana di “sperimentazione” tra gli utenti dell’app: nello stesso periodo in Liguria sono stati segnalati nuovi 11 casi totali, quindi l’incidenza tra gli utenti immuni è abbastanza credibile; ma non disponiamo dei due dati più importanti: quanti di queste 3 persone hanno effettivamente usato il codice di sblocco per attivare la segnalazione ai loro contatti (o meglio a quelli che avessero scaricato anch’essi l’app) e, soprattutto, quanti sono questi contatti? È ovvio che, a seconda del loro lavoro e dell’intensità della loro vita sociale, i contatti a rischio possono essere poche unità o anche centinaia e, mediamente, si stima possano essere una trentina per ogni nuovo caso.

Sebbene quindi l’app immuni sia stata concepita per ridurre i costi della fase di “trace”, i falsi allarmi potrebbero far lievitare i costi della successiva fase di “test”, mobilizzando più operatori sanitari e risorse di quanto necessario e, soprattutto, sottraendo risorse produttive nel caso la macchina di test non riuscisse a stare dietro alla rinnovata richiesta di tamponi da eseguire. Nella stagione estiva una quarantena non necessaria potrebbe impedire a molte persone di lavorare nel periodo di loro massima redditività, qualora fossero impiegati nel commercio e nel settore del turismo.

Per questi motivi riteniamo fondamentale che le autorità competenti siano trasparenti sulle statistiche di utilizzo della app immuni: è opportuno che il maggior numero di ricercatori possano sapere quanti utenti, tra quelli che hanno scaricato l’app (i cosiddetti download, l’unico dato pubblico) la usino davvero (utenze attive); quanti di questi siano stati trovati positivi al coronavirus e, soprattutto, quanti utenti ogni settimana abbiano ricevuto una notifica che li invita ad accedere ai servizi sanitari, sia di consultazione (ad esempio con il proprio medico di famiglia) che di pianificazione ed esecuzione di test molecolari. I ricercatori interessati potranno così associare quest’ultimo dato al numero di tamponi svolti in una certa area geografica, così come all’eventuale incremento di casi positivi rilevati, e quindi provare a stimare la accuratezza e costo-efficacia della strategia di trace & test che comprende l’uso dell’app immuni. Crediamo infatti che ricercatori indipendenti possano adottare e mettere a punto modelli alternativi e complementari tra loro e che, pubblicando con tempestività i risultati delle loro analisi, possano contribuire con un approccio trasparente e collaborativo open science alla valutazione di iniziative che impiegano l’uso di risorse pubbliche e riguardano la salute pubblica. Nel breve i primi dati così resi disponibili potrebbero permettere di giudicare l’appropriatezza di una campagna istituzionale che promuova l’uso dell’app immuni da parte dei cittadini Italiani, strumento che, lo ricordiamo, potrebbe avere un impatto trascurabile nel contenimento dell’infezione (per i falsi negativi) e invece un impatto più rilevante e negativo (per i falsi positivi) sul tessuto produttivo e sulle finanze di uno Stato già fortemente provato dall’emergenza sanitaria in atto. 

Come partecipare alla ricerca

Anche noi, nel nostro piccolo di ricercatori e “scienziati dei dati”, vorremmo contribuire a stimare l’impatto di quello che sembra un esperimento sociale senza precedenti, applicato su scala nazionale dopo una “sperimentazione” nel mondo reale di appena sette giorni. Chi volesse aiutarci a capire l’impatto dell’app immuni può collaborare con noi e, se riceve da essa una notifica, compilare un brevissimo form anonimo che abbiamo approntato per valutare l’esperienza d’uso di tale strumento: https://tinyurl.com/contattato-da-immuni 

Se le prove di efficacia non arrivano dall’alto, speriamo di fare luce con una indagine partita dal basso.