editoriale

Conte e il Mef decidono l’agenda delle società quotate in Borsa e sostengono i candidati CEO?

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Quanto pubblicato stamane dal Messaggero sollecita inquietudini sull’affermazione di atteggiamenti di tipo sudamericano, nel rapporto tra governo e aziende quotate, e di alterazione delle dinamiche stesse di mercato. Difficile non prevedere una reazione dei grandi investitori internazionali, che mal tollerano le ingerenze dei governi nelle attività di società quotate. CONSOB? Non pervenuta.

Contatti irregolari? Interlocuzioni dai contenuti inopportuni? Alterazione delle logiche di mercato? Come definire, altrimenti, quanto riportato dal Messaggero di questa mattina nell’articolo “Conte a Vivendi: pace in TIM e Mediaset”, a firma di Rosario Dimito?

Si dà conto di un incontro, peraltro del tutto legittimo, tra il premier Giuseppe Conte e Arnaud de Puyfontaine, Ceo di Vivendi

Potremmo dire un incontro di routine, se non fosse per ciò che si sono detti.

Nel corso dell’incontro, secondo quanto riportato dal quotidiano romano, il presidente Giuseppe Conte “…avrebbe avanzato suggerimenti finalizzati a una convivenza societaria funzionale alla crescita dei business nel rispetto degli interessi…l’emissario di Vincent Bollorè avrebbe avuto colloqui anche al Tesoro, ricevendone più o meno le stesse considerazioni…”.

Quali considerazioni?

Secondo quanto riportato dal quotidiano romano “… In poche parole, in TIM, dove Vivendi è dal 2015 primo azionista con il 23,9%, il governo gradirebbe che sia il CdA uscente a preparare una lista per il rinnovo del board, come avviene in molte public company (Mediobanca e Unicredit), su cui potrebbe convergere la CDP (9.8%). Questo significa la probabile riconferma di Luigi Gubitosi che sulla sua determinazione a costruire la rete unica si è guadagnato l’appoggio dell’Esecutivo, seppur esso non può intervenire sulle decisioni societarie. E il governo avrebbe suggerito a Vivendi, che nel consiglio attuale esprime 5 membri (su 15, ndr), di sostenere questa procedura, contribuendo alla formazione della lista attraverso le proposte di un head hunter. Quindi il primo socio dovrebbe rinunciare a una presa manu militari del gruppo, perché il governo considera TIM una public company, non una società a controllo francese come asseverato dalla CONSOB…”.

Affermazioni gravi nel merito e nel metodo.

TIM non è una public company, perché ha un primo azionista con la bellezza del 23,9% delle azioni, pari a quasi ¼ delle azioni. Altro che public company.

Ma è anche una società quotata in Borsa. 

Com’è possibile che su una società quotata si possano riportare i desideri del premier e presumibilmente del ministro del Tesoro o di suoi subalterni (che parlavano evidentemente in nome e per contro del ministro del MEF), capaci di “brigare” e stabilire le modalità con cui predisporre le liste in vista del rinnovo del Consiglio di Amministrazione e addirittura o con cui scegliere (o rinnovare) la persona da porre alla guida di un’azienda come TIM.

Al contrario, TIM non è una public company

È una importante società privata quotata in Borsa. 

Il governo non dovrebbe mettere in alcun modo il naso in queste vicende, perché così facendo altera le dinamiche di mercato. Si tratta di una intromissione indebita di stile sudamericano, che potrebbe far irritare notevolmente i mercati (non a caso dopo la notizia di stamane, il titolo di TIM in Borsa segna una flessione a fronte dell’andamento positivo delle Borse mondiali.

Ma non è la prima intromissione indebita del governo verso la medesima società. 

Lo scorso 4 agosto in pieno Consiglio di Amministrazione di TIM fece irruzione, stando ala ricostruzione giornalistica, una telefonata del premier Giuseppe Conte, bloccando alcune decisioni in corso.

A fronte di tali manifestazioni, viene naturale anche chiedersi come mai la CONSOB resti muta.

Cosa fa, vigila o dorme? 

Tutela o no il risparmio degli italiani? 

Naturalmente può darsi che quanto riportato dal Messaggero sia infondato (cosa da escludere, data la serietà del giornalista che ha firmato l’articolo), ma allora servirebbe il riscontro di una smentita di Palazzo Chigi.

Nel contempo, si potrebbe certo obiettare legittimamente che è normale che un importante investitore estero che controlla una infrastruttura critica come la rete di Tlc, si consulti con il capo del governo. In tal caso, ci si può dire di tutto tra il premier e il capo di un importante società che investe in quel Paese e potrebbe accadere anche che il capo del governo dia precisi ordini a voce alta. 

Ma in questo caso scatta l’ordine del silenzio. 

E così viene da chiedersi ancora perché mai l’informazione è trapelata, chi l’ha fatta trapelare, perché oggi, perché su un solo giornale e, infine, per essere indirizzata a chi?

Tutti quesiti che meriterebbero una risposta.