la rottura

Google, l’Antitrust Usa vuole la vendita di Chrome per violazione della concorrenza

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L'antitrust Usa starebbe valutando di chiedere a Google di vendere il browser Chrome e parti delle attività sul mercato pubblicitario.

Per la prima volta gli americani stanno pensando di dividere una società tecnologica a stelle e strisce, Google.

Secondo le indiscrezioni di Politico.com, il Dipartimento di Giustizia e alcuni procuratori statali avrebbero avviato un’indagine nei confronti di Google per presunte violazioni delle norme antitrust e starebbero valutando di chiedere alla società di vendere il browser Chrome e parti delle attività sul mercato pubblicitario.

Google Chrome e l’abuso di posizione dominante

Il motivo è semplice. Google, attraverso il suo browser Chrome che ha una quota di mercato del 70%, raccoglie enormi quantità di dati sugli utenti e le proprie abitudini di navigazione in Internet. In questo modo l’azienda guidata da Sundar Pichai rafforza ulteriormente la sua posizione sul mercato della pubblicità, tutto a discapito della concorrenza.

Le autorità statunitensi stanno ascoltando le varie aziende concorrenti di Google ed altre parti più o meno interessate per raccogliere opinioni sulla questione e valutando la possibilità che la vendita del browser ad eventuali aziende concorrenti possa rivelarsi inadeguata. Il rischio è che la “potenza” sottratta al colosso di Mountain View tramite la vendita di Chrome possa semplicemente passare nelle mani di un’altra azienda e quindi non risolvere la questione fondamentale. 

Il report del Congresso Usa

Il Congresso Usa sta seriamente portando avanti una propria battaglia per limitare il potere della big tech come Google, Apple, Facebook e Amazon.

Il report (clicca qui per scaricarlo) pubblicato lo scorso 6 ottobre dallo staff democratico del sottocomitato Antitrust della Camera, ha evidenziato come i Big Tech si sono ‘mangiati’ 550 aziende per eliminare la concorrenza e soffocare l’innovazione.

Da YouTube (1,6 miliardi di dollari per l’acquisizione da parte di Google) a WhatsApp (14 miliardi il costo di acquisto) fino a Instagram, che ora si scopre è stato acquistato da Facebook per un 1 miliardo nel 2012, non 2 miliardi come riportato fino ad oggi. Dal 2001 ad oggi le Big Tech, quando non ce l’hanno fatta a primeggiare, hanno acquisito le società concorrenti: anche così sono diventati i giganti del web, senza l’intervento della Federal Trade Commission.

Il documento accusa Facebook e Google di avere una posizione monopolistica, attribuendo invece ad Apple e Amazon un “significativo e duraturo potere di mercato”, e critica inoltre anche le autorità antitrust statunitensi per non essere state in grado di frenare il loro dominio in tutti questi anni.

Nuova legge per lo ‘spezzatino’ delle piattaforme

Il testo, lungo 449 pagine, raccomanda pertanto al Congresso di considerare una serie di misure di risposta, tra cui figura anche una legge che possa in qualche modo obbligare le società in questione a separare alcune piattaforme online dominanti da altre linee di business. In aggiunta, vengono proposte una serie di modifiche alla normativa antitrust al fine di garantirne una sua rigida applicazione.

Il rapporto di per sé non comporta vincoli giuridici, ma i legislatori sperano che le sue conclusioni possano indurre i responsabili politici a prendere dei provvedimenti.

La componente repubblicana del Comitato della Camera non ha aderito al report, ma nelle interviste rilasciate negli ultimi giorni ha dichiarato di condividere le preoccupazioni sulle big tech sollevate dai Democratici, sebbene non sia d’accordo con alcune raccomandazioni di pù’ ampia portata.

Il rapporto pone fine a un’indagine lanciata nel giugno 2019. I legislatori hanno avuto accesso a una montagna di documenti aziendali interni delle big tech- più di quanto le società avessero voluto fornire ma meno di quanto richiesto dal comitato – e hanno raccolto prove da oltre 100 partecipanti al mercato. L’inchiesta si è intensificata poi lo scorso luglio quando i legislatori hanno richiesto le e-mail personali di alcuni dirigenti tech nel corso di un’udienza controversa durata cinque ore.