L'analisi

Giornali di carta, come traghettare l’informazione nell’era digitale?

di Fernando Bruno, Consigliere del Presidente Agcom |

Mentre ci si interroga sulle soluzioni, i giornali di carta lentamente muoiono. Salvare quel bene pubblico che è l’informazione è compito che non può essere affidato unicamente al mercato.

La rivoluzione digitale è un cambio di parametro. Essa non solo segna una discontinuità profonda che ha effetti su ogni aspetto della vita sociale e personale di ciascuno di noi, ma muta radicalmente assetti e relazioni sociali consolidate nell’organizzazione del lavoro, nei rapporti economici, nella sfera dei diritti, nelle forme e nei modi della comunicazione. Smaterializzazione, disintermediazione, comunicazione in tempo reale. Dentro questi fenomeni – che investono a tutte le latitudini la sfera individuale e gli ambiti sociali – sta il senso di ciò che, con sintesi necessariamente faticosa e sommaria, chiamiamo rivoluzione digitale.

Per dare senso e sostanza alla dimensione del fenomeno non mi sovviene immagine più efficace di quella delle invasioni barbariche. Barbaro, nel lessico antico, era tutto ciò che fosse estraneo alla civiltà greco ellenistica, ovvero, per li rami, alla civiltà latino – romana. Google, Facebook, Amazon, Apple, semplificando assai, sono i nuovi barbari, quelli che rompono modelli economici, organizzazioni sociali, forme del lavoro, abitudini, orientamenti, modalità relazionali e comunicative, e mettono in crisi ordinamenti e assetti che qui in occidente abbiamo dato lungamente per acquisiti e consolidati, oltre che faticosamente raggiunti.

Ovviamente la nostra cultura è ormai largamente affrancata dai modelli che ancora qualche decennio addietro erano cristallizzati nei sussidiari delle scuole dell’obbligo, e che pure ispiravano non poche ricostruzioni accademiche. Nella prevalente storiografia odierna i barbari non sono più i feroci avventurieri senza storia, calati dal Nord a infrangere e disperdere culture millenarie. Ma era semmai, quella loro irruzione verso sud (si badi, “invasione”, nella cultura latina, ma “migrazione”, secondo la cultura germanica), la conseguenza naturale ed inevitabile del vuoto determinato da civiltà in declino, onuste di gloria, ma ormai avvizzite nelle proprie strutture sociali ed economiche. Come la fisica non conosce l’assenza di materia, così la storia non ammette il vuoto pneumatico. Se c’è uno spazio (geografico o mentale) che si crea, qualcuno o qualcosa provvederà ad occuparlo. E’ quello che accadde allora. Ed è quello che accade oggi, nel momento in cui la tecnologia apre spazi sempre nuovi, impensabili solo pochi anni fa, all’iniziativa dell’uomo, in tutti i campi. Nessuna accezione negativa, dunque, ma semplice constatazione di un fatto: i barbari sono di nuovo tra noi.

Perché l’invasione dei nuovi Barbari si traduca in nuove opportunità – e non parlo di quelle minute opportunità di cui abbiamo ampia e tangibile dimostrazione ogni giorno, ma della opportunità di aprire un nuovo ciclo storico all’insegna del progresso civile e culturale, della giustizia, dell’eguaglianza di chance – deve realizzarsi una saldatura virtuosa tra vecchio e nuovo, esattamente come accadde sulle ceneri dell’Impero di Roma.

Tra il V e il VI secolo il conflitto (che peraltro non ha mai assunto la forma di una resa definitiva di un modello ad un altro, ma piuttosto ha vissuto di un lento processo di infiltrazione e di reciproca ibridazione) cedette gradualmente il passo a un nuovo inizio. Venne infatti a compiersi lentamente, pur in un contesto di confuso e perdurante scontro militare, quella saldatura tra le civiltà barbariche e l’eredità cristiano giudaica – un processo inaugurato da Clodoveo, re dei Franchi, col suo battesimo, nell’anno domini 496, e poi suggellato dalla progressiva conversione al cristianesimo di buona parte dei re barbari – che finì per generare, nell’arco di tre secoli, quell’impero cristiano romano-germanico cui la futura storia dell’Europa moderna così tanto deve, e la cui origine è convenzionalmente individuata nella notte di Natale dell’anno ‘800, con l’incoronazione, in San Pietro, di Carlomagno.

Allo stesso modo dobbiamo augurarci che, nel fare i conti con i nuovi Barbari, le nostre società sappiano trovare quelle motivazioni, quelle spinte, quelle mediazioni (in una parola, quella visione) che sole sapranno germinare il nuovo inizio di cui l’Europa ha estremo bisogno. Ma perché ciò avvenga, bisogna stare bene attenti a non dissolvere quanto di buono il retaggio del ‘900 ha riversato nel nuovo millennio. Sarebbe facile riferirsi paradigmaticamente al tema del lavoro (organizzazione, ordinamenti, conquiste sociali) per convenire con chi oggi sostiene che se orari, ritmi e salario sono frutto di algoritmi, allora bisogna fare dell’algoritmo oggetto di trattativa.

Ma proviamo a spostare il ragionamento sul tema del diritto all’informazione.

Proviamo, in particolare, a ragionare sull’argomento, ormai abusato, della “post truth”. Chi studia il fenomeno ci avverte che la falsa informazione ha tre radici: i) il chiacchiericcio  planetario da social network che genera pseudo informazione, pseudo notizie e persino preudo-scienza, e che si alimenta del contagio emotivo ormai oggetto di studi accademici; ii) l’hate speach, ossia la pura e semplice volontà di odiare e denigrare; iii) ma soprattutto, la più insidiosa, quella che si estrinseca nelle moltissime, sofisticate e strutturate macchine del fango che, con largo uso di robot, creano ex novo narrazioni fittizie intese a orientare opinioni, mode, atteggiamenti, condotte di milioni di persone.

A fronte di questo fenomeno immane, che nessun ordinamento e nessuna Commissione Verità sarà in grado di sradicare dalle fondamenta, e che mette a rischio alcuni presupposti di base dei nostri ordinamenti democratici, noi assistiamo al declino irreversibile del nostro più antico e consolidato strumento di informazione professionale: i giornali di carta, la cui lettura è stata per un paio di secoli la “preghiera mattutina dell’uomo moderno”, per dirla con Friedrich Hegel. Perdurando i trend attuali, nessun accordo di revenue sharing con gli Over the top, per quanto utile ed auspicabile, potrà strappare alla morte i giornali di carta. In Italia, il dimezzamento di vendite e fatturati dell’ultimo decennio; la falcidia delle maestranze; il taglio perdurante dei costi arrivato ormai a compromettere la qualità dell’offerta nel tentativo di frenare il crollo dei margini operativi, sono fenomeni che non lasciano troppo spazio a ragionamenti di prospettiva.

Quello che si intravede all’orizzonte non è uno scenario rassicurante: da un lato le architetture accattivanti del giornale unico sognato da Zuckerberg e dell’algoritmo salvifico perseguito da Google, dall’altro il profilo di guglie e archi rampanti della cattedrale gotica del nostro tempo, quell’Amazon che è sempre più il santuario di tutte le nostre propensioni, di tutti i nostri gusti e di tutte le nostre attitudini.

Naturalmente il bianco non è tutto bianco e il nero non è tutto nero. Cattivo giornalismo e fake news sono vecchi come i giornali di carta. E i vizi della corporazione sono stranoti. Ed anche la circostanza che non esiste giornale che non abbia i suoi sponsor e i suoi padrini, più o meno nobili.  Ma il fatto è che nessuno ha mai ancora inventato uno strumento migliore per formare e informare dialetticamente una opinione pubblica degna di questo nome. Il fatto è che, con tutto il rispetto per i tanti blogger coraggiosi disseminati lungo il pianeta, e per quei balenii di informazione libera, verticale e spregiudicata che il web talora lascia intravedere, non si vedono all’orizzonte, almeno in Italia, Enzi Biagi, Indro Montanelli, Oriana Fallaci, con a disposizione i mezzi e gli strumenti idonei a costruire informazione trasparente, professionale, autorevole.

Il pensiero più liberal, sulla scia di una consolidata giurisprudenza della Corte Suprema americana, evoca sovente l’immagine del market place of ideas, secondo cui il primo emendamento americano (e, mutatis mutandis, l’art. 21 della nostra Costituzione) estenderebbero la garanzia del diritto di manifestare il proprio pensiero anche a contenuti del tutto privi di pubblic value, quando non anche suscettibili di introdurre nel dibattito pubblico elementi di disvalore. Si tratta di un pensiero che trova forza nella constatazione che negli ordinamenti democratici la molteplicità delle fonti è tale da essere di per sé un baluardo di libertà e pluralismo dell’informazione. Tutto questo è vero, a condizione però che i giornali non muoiano. Se i giornali muoiono, e al contempo – come tutti gli indicatori ci dicono – il web diventa il maggiore strumento di informazione dei cittadini, è lo stesso market place of ideas che ne uscirà irrimediabilmente indebolito.

Non passa giorno senza che una notizia di cronaca aggiunga nuove ragioni a questo postulato (ci si riferisce in particolare ad una recente inchiesta di BuzzFed a proposito di una catena di siti italiani dediti alla misinformation su vasta scala, nonchè alle imbarazzanti conseguenze delle policy di Facebook di fronte ai post di commemorazione della morte di Riina piovuti sui profili dei congiunti).

Ecco perché tra i nuovi Barbari e il vecchio regime bisognerà trovare il giusto punto di mediazione. Al riguardo, gli accordi in fieri, o siglati, in tanta parte del mondo, addurranno certamente una salutare boccata di ossigeno e qualche ragionevole elemento di equilibrio. Ma nulla di più, temo.

E in attesa che qualcuno scopra finalmente il modello di business adeguato a traghettare l’informazione professionale dei giornali di carta nel nuovo contesto digitale (al momento in Italia il rapporto tra copie cartacee perse e copie digitali   acquisite è 10:1), bisognerebbe avere il coraggio di dire – per quanto vecchio sia questo dire, e per quanti nasi si arricceranno – che solo un intervento pubblico che abbia le proporzioni, il respiro e le finalità di quello inaugurato agli inizi degli anni ’80, può davvero dare un futuro a quel bene pubblico che è l’informazione giornalistica plurale, professionale, dialettica, critica, trasparente.

Ancor meglio se siffatte politiche pubbliche saranno orientate a sostenere non già l’offerta – così da stroncare sul nascere ogni obiezione in ordine all’utilizzo distorto del sostegno statale – bensì la domanda, quella del pubblico dei lettori, preferibilmente del pubblico dei giovani potenziali lettori.

Magari non funziona; magari i giornali di carta hanno davvero fatto il loro tempo e anche nella loro versione digitale, persino gratis, non saranno capaci di far crescere platee di nuovi lettori. Magari dovremo rassegnarci a credere che quella preghiera mattutina ha definitivamente perso i suoi fedeli. Eppure non si può non pensare, in un paese dove il 60% degli adulti non legge nemmeno un libro nell’arco di un anno, che con cento milioni di euro l’anno per cinque anni (ossia con uno stanziamento pari a quello del bonus giovani degli anni scorsi) si possono “accendere” più o meno un milione di abbonamenti a giornali e riviste di informazione. E se a ciò seguisse un eguale sforzo finanziario da parte del settore editoriale interessato, la platea dei potenziali abbonamenti gratuiti potrebbe arrivare a due milioni. Sostegno alla domanda, zero soldi diretti alle aziende, niente registri, niente istruttorie amministrative, zero controlli ex post, nessuna possibilità di “marciarci”. Solo la possibile, auspicabile crescita della platea dei lettori digitali di informazione plurale e professionale. Crescita potenziale, per carità. Nella peggiore delle ipotesi quei fondi resteranno inutilizzati e avremo più chiaro lo scenario che ci attende. Perché non provarci?

Nel 1644, nel pieno della guerra civile inglese che di li a cinque anni avrebbe fatto rotolare la prima testa coronata d’Europa, John Milton, con la sua Aeropagitica, ci ha regalato un inno indimenticabile alla libertà di espressione. Se muore un libro è come se morisse un uomo, dice Milton. Certo, era ancora una Europa dominata dall’assolutismo, le cui notti erano rischiarate dai bagliori dei roghi della caccia alle streghe, ed in cui la Santa inquisizione e l’Index librorum prohibitorum godevano di ottima saluta. Eppure (si parva licet…), in un epoca in cui un pezzo della classe politica dirigente si rifugia nella filosofia del ciaone, e un pezzo ancora più grande crede di instillare pensiero critico nell’opinione pubblica attraverso un tweet, sembra lecito nutrire qualche moderata preoccupazione e provare a invertire la rotta.