Ultrabroadband

Ecco perché la CDP non può entrare con ruolo dominante in Telecom Italia

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Qualcuno ha capito cosa sta succedendo al dibattito sulla banda larga e alle decisioni per dare un taglio a una vicenda ormai pluriennale che ha sfiancato tutti?

Qualcuno di voi tra addetti ai lavori, analisti, manager, politici ha capito cosa sta succedendo al dibattito sulla banda larga e alle decisioni che tutti attendono per dare un taglio a una vicenda ormai pluriennale che ha sfiancato tutti?

Per un attimo avevamo immaginato che la velocità e la temerarietà del Governo, usata per affrontare e risolvere questioni anche più complesse, si sarebbe scaricata beneficamente anche sulla rete e lo sviluppo dei servizi digitali.

Ma francamente non vorremmo esserci sbagliati.

Cos’è accaduto?

Fino allo scorso inverno (e per almeno 3-4 anni) il tema centrale era quello dello scorporo della rete.

L’hanno definita “la gallina dalle uova d’oro” e, diciamolo, in tempi in cui la politica fa grande fatica a finanziarsi (i beni dei partiti vengono ormai pignorati per pagare i fornitori), una cosa come la rete scorporata, ipotesi fortemente voluta e sostenuta proprio dalla politica, avrebbe potuto dare dei bei frutti (una specie di mini-IRI, da cui tutti dicono a parole di voler stare a distanza).

Ma chi avrebbe fatto questo scorporo e chi si sarebbe preso il fardello di una Telecom Italia priva di rete, ovvero priva del suo core business (caso che sarebbe stato unico in Europa)?

Si è detto: “qualcuno potrebbe avere le sue convenienze”.

Si è parlato di tante opzioni e anche del magnate cinese già cultore delle telecomunicazioni (dove registra perdite), ma impegnato in ben altri settori (dove raccoglie profitti con cui ripiana il resto).

E gli americani (che da anni hanno ordinato alle proprie aziende in giro per il mondo di non comprare neanche un bullone da aziende cinesi) che avrebbero detto dell’ingresso di un cinese nella rete italiana, considerata la strategicità del nostro paese nello scacchiere del Mediterraneo?

Non molto, hanno aggiunto i soliti informati, aggiungendo: “…Se hanno digerito l’acquisto del 35% di CDP Reti (che pure possiede il 30% rispettivamente di SNAM e di Terna) da parte della State Grid Corporation of China, digeriranno anche la rete ultraveloce in mano ai cinesi”.

L’argomento è stato così a lungo nei discorsi di tutti coloro che a Palazzo Chigi si occupavano di rete.

Poi non se ne è fatto nulla.

Strategia del Governo e…venti di Guerra

Viene quindi varata ai primi di marzo dal governo la Strategia sulla banda ultralarga, fondata sullo sviluppo della rete intorno a una società-veicolo come Metroweb.

Il suo varo avviene però senza un accordo a monte tra tutti i soggetti di mercato.

La Strategia governativa perde appeal.

E non finisce qui.

Il DL Comunicazioni si impantana nel clima umido di queste torride giornate di luglio.

Vivendi prende il 15% di Telecom Italia, nel silenzio più assoluto della politica. “…Non si parla di società quotate e affidate alle dinamiche del mercato…” è stato detto da qualcuno, come se negli ultimi tre anni avessimo parlato di Biancaneve e i 7 nani.

Metroweb, fino ad allora al centro del mondo, viene ingoiata dall’anonimato.

I vertici della Cassa Depositi e Prestiti sono sostituiti con una repentinità tale da lasciare immaginare chissà quali condizioni emergenziali e l’arrivo da un momento all’altro di scelte risolutorie e di rilevanza strategica.

Ma dietro il loro allontanamento non sembra esserci una strategia configurata e pronta per essere eseguita.

In molti hanno anche considerato l’allontanamento anzitempo di Franco Bassanini come una scelta generata dal disallineamento di quest’ultimo rispetto alle scelte politiche del governo in materia di governance di Telecom Italia, di futuro della rete e di chissà cosa altro.

Ma Bassanini non è più lì e dal giorno dopo è solo scattata una campagna del tutto incerta su un possibile ingresso CDP in Telecom Italia.

Confrontare l’Italia con Francia e Germania?

A fare intravedere tale opzione, hanno concorso le dichiarazioni del consigliere di Palazzo Chigi, Andrea Guerra, che ha ricordato la presenza dei rispettivi Stati nell’operatore francese Orange (attraverso il Fonds stratégique d’investissement – la CDP francese – con il 13,5% e con una partecipazione diretta dello Stato del 13,45%) e in Deutsche Telekom (partecipazione dello Stato attraverso il governo con il 15% e la KfW Bankengruppe – la CDP tedesca – con il 17%).

Ma come si fa a prendere a modello due realtà diametralmente opposte rispetto alla storia dell’incumbent italiano e della evoluzione della sua compagine proprietaria in relazione alla presenza dello Stato?

Fino al 1996, l’allora SIP e la controllante STET erano entrambe di proprietà dello Stato, attraverso il Ministero del Tesoro.

Poi con la furia iconoclasta che pervase i liberalizzatori italiani dell’epoca (tra cui molti tra quelli che avevano partecipato attivamente allo scontro titanico contro le Partecipazioni Statali) furono smantellate in brevissimo tempo tutte le partecipazioni statali presenti nella nuova Telecom Italia, compreso il cosiddetto “nocciolino duro” o golden share del 5%, che avrebbe dovuto dare una via d’uscita in caso di “aggressioni” esterne del mercato su un asset rilevante come la rete (e c’era poco o nulla ancora di Internet).

In sostanza lo Stato italiano si è tirato completamente fuori dalle telecomunicazioni, a differenza di quanto accaduto in Francia e in Germania, dove lo Stato si è semplicemente ritirato da un controllo totale a una quota sostanziale di controllo di circa il 30%, senza mai scendere al di sotto di quella soglia.

L’intero quadro regolatorio delle tlc tedesche e francesi si è pertanto adeguato nel corso del tempo a quella realtà e ha fissato regole che consentissero ai nuovi entranti delle condizioni non penalizzanti.

In Italia il caso è completamente diverso

La Cassa Depositi e Prestiti può, senza dubbio, entrare in Telecom Italia.

Del resto, se la sua omologa CDP francese ha appena portato la sua presenza in Telecom Italia allo 0,6%, perché non la Cassa Depositi e prestiti italiana nell’operatore italiano?

Il punto è che qualcuno sta pensando a quote di partecipazioni anche superiori al 10%, il che rappresenterebbe un’alterazione delle dinamiche di mercato, specialmente in concomitanza con il piano di investimenti dell’azienda sulla banda ultralarga.

Finanziare con fondi di provenienza pubblica (CDP, per intenderci) uno dei soggetti di mercato operanti in un contesto in cui gli investimenti pubblici sono assenti da decenni, costituirebbe un caso grave di aiuti di Stato sotto mentite spoglie.

Insomma una bella gatta da pelare.

 

Strategie e politiche industriali, ma senza tweet

In conclusione, il punto è uno e uno solo.

I governi servono a trovare soluzioni e a renderle eseguibili, alla luce di strategie e di politiche industriali che devono essere esplicitate.

Se il governo non è stato capace di trovare sino a oggi una soluzione negoziale, con tutte le forze di mercato, su come lanciare il piano nazionale di sviluppo della banda ultralarga (riuscendo anche a utilizzare i fondi di provenienza europea, che a questo punto sono effettivamente in forse), lo stesso governo non può pensare di risolvere il problema in modo forzato con un ingresso fuori tempo e fuori da ogni ciclo storico, della CDP in Telecom Italia con percentuali che non avrebbero alcuna giustificazione logica.

A meno che non abbia una strategia ed una politica industriale del settore sulla quale chiamare a confronto le forze di mercato, gli imprenditori, i sindacati e magari su questa scorta indicare una proposta (una e una sola) sostenibile e plausibile di tipo win-win.

Il governo agisca, forse è l’unico governo che può risolvere un problema così annoso, ma lo faccia con sobrietà, serietà, competenza, velocità.

E possibilmente senza tweet e lanci compulsivi di comunicati stampa di questo o quel dirigente di Palazzo Chigi.