Reportage

Cronache dal futuro. New York, nulla sarà come prima

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26 aprile 2022. New York è stata la più colpita dal Covid-19, con oltre mezzo milione di morti nello Stato e una cifra spropositata di contagiati, che non si riesce ancora a stabilire con certezza.

26 aprile 2022. Sono passati più di due anni dall’inizio dell’epidemia in Cina. La maggior parte della popolazione mondiale non ha ancora capito che “nulla sarà più come prima!”  Già lo predisse Gordon Lichfield, direttore del Mit Technology Review, la rivista del Massachusetts Institute of Technology, in un’analisi che si intitolava “We’re not going back to normal”. Intanto il Boeing della rinata Alitalia sta per toccare la pista del John Fitzgerald Kennedy di New York. Ho viaggiato con mascherina e guanti, forniti dalle hostess, su un aereo con meno della metà dei passeggeri. Su ciascun ordine di sedute, ogni fila vedeva al massimo quattro passeggeri, uno nelle laterali e due nella centrale. Questa cautela, dovuta alle nuove norme anti epidemia, ha fatto schizzare i costi dei voli e reso più complicato viaggiare. I bagni dell’aereo vengono disinfettati ad ogni utilizzo. Ogni passeggero riceve in dotazione una boccettina di “Hands sanitizer”, per l’igiene delle mani, con la preghiera di consumarla tutta nel volo.

Non ci sono più riviste e cartelle di comunicazione nelle tasche dei sedili ma informazioni via monitor. Vengono fatte rispettare le distanze tra passeggeri, ogni volta che ci si alza dalle poltrone. Non possiamo incrociarci nei corridoi. La prima classe ha aumentato le divisioni fra viaggiatori, rendendo ancora più esclusiva e intima la seduta. Con un lento processo di uscita, ci avviamo al controllo passaporti, che negli Stati Uniti è sempre stato minuzioso e anche asfissiante, figuriamoci adesso che si sentono accerchiati, non solo dai terroristi e dai comunisti ma anche dai bacilli.

New York la conoscete tutti. È la città più popolosa degli Stati Uniti. L’agglomerato metropolitano, diviso in cinque Boroughs (distretti), raggiunge ormai i 30 milioni di abitanti e nella sola Manhattan vivono circa in 9 milioni. Fuori della sua area metropolitana, alcune città dello stato di New Jersey gravitano sempre su New York, per ovvi motivi economici. New york è bella in qualsiasi stagione, anche se il meglio di sé l’ha sempre dato a Natale, con le luci sfavillanti, il MOMA, Tiffany, Victoria’s Secret sulla Broadway, il Madison Square Garden, Dean & De Luca, Times Square, le ostriche alla Central Station, i negozi carichi di regali, le bistecche da Gallagher’s Steakhouse sulla 52nd west, gli alberi di Natale illuminati, la neve, Santa Claus i giocattoli da FAO Schwarz al Rockfeller Center. Adesso New work è una città ferita che cerca di rinascere.  

Manhattan

Anche se è arrivata tardi ad essere toccata dal virus, New York è stata la più colpita, con oltre mezzo milione di morti nello stato e una cifra spropositata di contagiati, che non si riesce ancora a stabilire con certezza. Molti sono sfuggiti ai controlli o sono deceduti senza che si fosse potuto sapere chi fossero, senza che nessuno ne reclamasse la salma. Due anni fa, alla fine di aprile 2020, New York era la prima città al mondo per morti di Coronavirus, ne contava 57.000 (103.000 nello stato), con oltre 260.000 casi di contagio. Gli ospedali erano sovraffollati e c’era una enorme carenza di attrezzature protettive per il personale medico e di ventilatori polmonari per i pazienti intubati nei reparti di terapia intensiva.  Nel giro di due mesi aveva superato ogni altra città europea e la stessa Wuhan, dove tutto era iniziato. Il governatore Andrew Cuomo aveva bloccato tutte le attività. Quando arrivò il picco, ogni giorno morivano 3.000 persone e non c’era posto negli obitori e nemmeno nei camion frigoriferi. I furgoni bianchi potevano ospitare fino a 45 salme per volta. Si cambiarono le leggi e in 14 giorni, invece di 60, si decretava se un morto poteva essere seppellito ad Hart Island, l’isola delle lacrime, come l’ha chiamata il New York Post. Quest’isola è un lugubre scoglio a est del Bronx, dove, da un secolo, vanno interrate le bare dei senza nome, i reietti di New York, morti ammazzati o per un’epidemia, come in questo caso. Quanti ne abbiano seppelliti non si sa, tutto veniva fatto in fretta, forse 25 o 30 al giorno, per mesi e mesi. Nell’isola c’erano già, nelle fosse comuni, un milione di cadaveri delle epoche precedenti. Ricorderete tutti quelle foto scattate da un drone, dove si vedono ammassare casse anonime, da uomini in tuta bianca, mentre un bulldozer ricopre di terra nera i poveri resti nelle fosse comuni. Una volta i becchini erano i detenuti del vicino carcere di Rickers Island, nel momento clou della epidemia, per ovvi motivi di sicurezza, si è preferito affidarsi a dei professionisti.

New York è la città più cosmopolita che ci sia sulla terra, un melting pot che forse è pari solo a quello di Londra, con immigrati da ogni parte del mondo. Tutto quello che accade qui non passa inosservato e spesso condiziona il resto del mondo: la moda, la musica, la letteratura, lo spettacolo, la tecnologia, l’arte ma anche il turismo, la gastronomia, i trasporti, lo stile di vita, tutto quello che si vuole comunicare al mondo deve passare da qui perché possiamo accorgercene. Ogni volta che vi si arriva, a prescindere di quale sia lo scopo del viaggio, una carica energica ti assale, è il mood di New York che non dorme mai. Delle mille iniziative, delle mille opportunità, del sogno americano di milioni di latinos e di europei, asiatici e africani. Adesso no. Ti assale l’ansia e la paura del contagio, un senso di smarrimento domina le persone, che vagano incredule per le sale dell’aerostazione, sembrano inebetite e senza una meta trascinano il proprio trolley. Anche se sono passati parecchi mesi e si è cominciato a vaccinare la gente a milioni e non c’è più l’emergenza negli ospedali, tutti sappiamo che siamo vivi per caso e che il virus può sempre tornare, com’è successo a Singapore, a Ceylon nella stessa Corea del Sud, a volte con effetti devastanti. Nel novembre del 2020 ci sono state le elezioni shock, Trump le ha perse sul filo del rasoio, a vantaggio del candidato democratico Joe Biden. Probabilmente ha pagato per i suoi errori, le sottovalutazioni dell’epidemia, le gaffes con la stampa, quando dichiarò che voleva disinfettare i contagiati oppure quando abolì le conferenze perché i giornalisti ponevano domande ostili! La sconfitta di Trump ha dato il via a una forte rivalutazione della sanità pubblica, con un ritorno dell’Obamacare per chi non si può permettere l’assistenza sanitaria.

Al controllo passaporti non si dialoga con l’agente, se non a distanza per citofono.

C’è in atto da alcuni mesi il Digital Control che avviene non più con il passaporto in mano ma con lo smart phone. Si memorizzano passaporto, carta di identità, licenza di guida e tessera sanitaria sul telefono con un codice Token, riconoscibile solo alle autorità di polizia previo il consenso della persona. Comunque il riconoscimento non avviene per via dei documenti, questi fungono da ultima verifica, il riconoscimento è biometrico, cioè con un sistema informatico che scandaglia una persona in base a più caratteristiche biologiche insieme: le specifiche della faccia, distanza degli occhi, forma del naso, composizione del volto, colore degli occhi, iride, ecc. e le impronte digitali. È un sistema testato nel 2019 a Lisbona e all’aeroporto di Skipol ad Amsterdam. Adesso viene applicato in tutti gli aeroporti più importanti. C’è un successivo controllo del bagaglio a mano e della persona. Si deve stabilire chi sono, cosa faccio negli Stati Uniti, se so dove andare ed ho il materiale necessario alla mia incolumità. Mi misurano la febbre con il termolaser, passo al metal detector e mi fermano perché…  c’è dell’ammoniaca nel mio I-pad? Non so di che cosa parlino. Ne discutono a lungo tra loro e con il responsabile, poi decidono di interrogarmi con domande del tipo “sei mai stato iscritto al partico comunista?” e “sei stato in Cina o in un paese arabo prima di arrivare a New York?”.  Fingono di credermi fino a che una mia firma sotto i tre fogli scritti fittamente in inglese, che mi sbattono davanti al naso, li tranquillizza. Questa è la burocrazia americana: ho firmato che non sono terrorista e contagiato, quindi sono salvi, hanno fatto il loro dovere. Imbocco il recupero bagagli e vedo la mia valigia posteggiata insieme a cento altre a fianco del nastro numero 5. Posso finalmente uscire, sempre rispettando le distanze.

Fuori dagli arrivi prendo un taxi che subito si avvia per la Jamaica Street.

La divisione tra tassista e cliente c’è sempre stata sugli yellow cabs, ma la novità è che non si paga più cash, è proibito, solo credit card. Il denaro è un veicolo di germi. Si sta bene, l’aria è fresca e piacevole.

Jamaica Street

Il clima a New York varia sempre molto, a seconda della stagione. In questo aprile del 2022 per fortuna stiamo vivendo una primavera soleggiata e calda. Un’anticipazione dell’estate che si preannuncia torrida, come succede da anni. In genere gli inverni invece sono lunghi e freddi, con temperature che arrivano anche a -20°C. Tempeste di neve e ghiaccio per strada, nonostante sia alla stessa latitudine di Napoli e questo è dovuto al carattere continentale del clima. Arriviamo rapidamente al Library Hotel, al 299 della Madison Avenue. Centralissimo albergo in stile, con diversi angoli di lettura caldi e raccolti, luci soffuse di sera, libri in tutte le suites, comodi sofà e mobili in ciliegio. Costa ben 500 dollari a notte, ma qui è tutto a due passi, la Central Terminal, Bryant Park, Times Square e lo stesso Empire.

Library Hotel – New York

Il servizio impeccabile, efficiente e riservato, la colazione abbondante, il silenzio impagabile. Alla reception un elegante funzionario in abito blu mi accoglie con guanti e maschera che nasconde il sorriso. “Buona sera Signore…” mi saluta in perfetto italiano, la cosa non mi dispiace e mi dà una sensazione di casa. Pago in anticipo con American Express e lascio un deposito per le eventuali consumazioni in camera. Gli americani si fidano ma non per l’alcool, al quale cedono troppo volentieri. Ci sono altri clienti che aspettano il loro turno, seduti in un salottino, accanto ai loro bagagli. Si espletano le formalità uno per uno, rispettando le distanze. In questo il formalismo anglosassone aiuta, più duro farlo digerire ai latini. Ricordo, in un servizio della CNN, una processione di almeno 300 fedeli, con tanto di enorme croce in testa, a Puerto Plata, in Repubblica Dominicana, autorizzata dal sindaco, in piena quarantena! Ma le abitudini di tutta la popolazione stanno cambiando, a tutto ci si adatta. Una volta in camera dispongo le mie cose nell’armadio. Dal terrazzino respiro l’aria di New York, che corre tra i grattacieli, ma non è la stessa di una volta. Un cicalino mi riporta ai miei compiti. Nella hall mi aspetta Cesare Casella.

Cesare è un amico, un imprenditore, un cuoco, un divulgatore.

Come sempre chi ha voglia di fare qui non fa solo una cosa, fa e fa e le attività si moltiplicano. Negli anni 90 è venuto in America dalla provincia di Lucca, dove gestiva un ristorante di famiglia e ne ha aperti altri a Manhattan. “Beppe”, in ricordo del nonno. “Maremma” un nome che funzionava con la clientela appassionata di Toscana e di profumo al rosmarino, che lui porta sempre nel taschino della giacca, come fanno gli architetti con oggetti strani, per darsi un tono. Era diventato presto noto tra i ristoratori di New York, diventando amico con Lidia Bastianich e Mario Batali, famosi anche per i programmi in tv. Mentre la Cucina Italiana si affermava a New York e negli States, grazie anche al successo di Eataly, si mise in società con imprenditori americani per gestire una salumeria con pasti caldi. Cesare venne nominato Rettore dell’International Culinary Center, la scuola di cucina che da francese si trasformò in italiana. La cucina francese perdeva colpi e quella italiana la rimpiazzava in tutto, locali, cibi, fama. Anche per questo Cesare aveva pensato di produrre qui la carne chianina e i prosciutti toscani, aggirando le difficoltà della Food and Drug Administration. Con i consigli del mio amico Simone Fracassi, macellaio casentinese, grande esperto di chianina, iniziò ad allevare e a produrre. Ogni volta era un passo avanti. Ora lo ritrovo produttore di successo di carni pregiate come il Casella’s Prosciutto Speciale, che farebbe la sua bella figura anche in una sfida con un San Daniele stagionato 36 mesi. In sostanza sarebbe un produttore dell’Italian sounding, un imitatore di brand italiani di qualità.  Lo sono tanti Italiani nel mondo. Additati dalla Coldiretti e dalla Confagricoltura come usurpatori delle nostre eccellenze. Chi credete che sappia fare i formaggi, le paste, i salumi e le pietanze, buone come le nostre, se non i nostri emigranti? In qualche caso i Governi italiani li hanno anche premiati, per aver dato lustro al Paese. In altre occasioni li hanno accusati di essere nemici del Made in Italy. Si, a volte ho trovato anche irlandesi o egiziani che si erano innamorati del pane e della pizza italiana, l’avevano studiata e copiata, per farla anche meglio. Il know how, questo si è il vero Made in Italy. Gli ingredienti li puoi trovare buoni anche fuori dall’Italia, ma come si fa e la tecnologia da usare, la conosce solo l’artigiano delle nostre valli e dei nostri monti. Cesare, verso le 6 del pomeriggio, mi porta a mangiare al Chelsea Market, sulla 9th, tra la 15th e la 16th Street. Uno stabile antico, ricavato da una vecchia fabbrica di biscotti (Oreo) che sta aperto fino alle 2 del mattino. Tanti negozietti vendono qualsiasi cibo, prodotti che vengono dalla campagna. C’è anche una gelateria e una pizzeria italiana. Tutto questo è stato rivalutato col virus, dice Cesare. Quello che è salutare e genuino è molto ricercato. L’americano sta abbandonando il junk food, McDonald è in crisi, la gente è stufa di essere avvelenata da bibite zuccherate gasate, salse dolci, fritti e hamburger che non sai da dove arrivano. L’igiene del Chelsea Market è maniacale. Tutto è pulitissimo e continuamente vedi passare il personale per la disinfezione dei marciapiedi. Un tempo si lasciava correre, oggi no. Prima erano i ristoranti il punto forte della catena alimentare. Noi ristoratori, dice Cesare, aiutavamo i produttori, gli artigiani, i contadini che coltivavano organico. Ora è il contrario. Sono loro che vanno forte e aiutano i ristoranti. In qualche caso si sono riciclati loro stessi come ristoratori, nello street food, per esempio. A Chelsea Market incontro molti banchetti dove si vende il pesce ma te lo puoi anche mangiare al momento. È sempre fresco di giornata: aragoste, granchi, ostriche e altro pescato tipico dell’oceano, sistemato in modo ordinato sui banchi col ghiaccio. Ci facciamo attrarre da due splendide aragoste. Grazie al blocco delle attività di pesca e del turismo, nei mesi della quarantena del 2020, il mare si è rigenerato. Le aragoste che erano minacciate di estinzione, ora sono di nuovo disponibili in gran quantità e così molte cose dell’ambiente si sono rigenerate per via della nostra inattività forzata.

Chelsea Market

Rimediamo un tavolino dove portiamo i piatti di carta (la plastica è abolita) con le aragoste, le patate saltate e un bicchiere di Vermentino di Gallura. Ci raccontiamo le nostre impressioni. Sono passati 25 mesi dall’origine della pandemia a Wu Han. Ci sono stati milioni di morti e i contagiati sono ancora molti nel mondo. Nonostante il vaccino abbia iniziato a dare un aiuto in tanti paesi, non sono pochi i problemi di organizzazione e gestione di questa fase, che rallentano la vaccinazione in Africa, nel Sud e Centro America, in India e in molti paesi asiatici. In Giappone nel 2021 ci sono state le Olimpiadi. Le prime in una situazione di controllo epidemico e l’organizzazione è stata magnifica, le ha vinte la Cina, sarà un segno dei tempi. In Russia le dimensioni del paese non hanno consentito una copertura della vaccinazione di tutta la popolazione. Il contenimento del virus aveva comunque messo in grado il governo, di far fronte all’emergenza fin dai primi mesi. In sostanza ci rendiamo conto che tutti i paesi sono ancora alle prese con i problemi di salute determinati dalla pandemia. La battaglia si avvia ad essere vinta ma il virus non è sconfitto del tutto.  C’è un altro problema che gli Stati stanno affrontando da oltre un anno e che è grave quanto quello della pandemia: la disoccupazione e la crisi del sistema produttivo, economico e sociale. Cesare è stato fortunato. Il settore dell’alimentazione non ha subito forti contraccolpi. Anche col virus non si smette di mangiare, anzi. In particolare per il settore dei salumi, che si possono conservare e che rappresentano un lusso, gli affari vanno bene. Stiamo tutti cercando di dare una risposta ai problemi gravissimi che la pandemia ha messo in luce, tra i quali quello più evidente è che dobbiamo reinventare tutto: i nostri stili di vita, le relazioni umane, come si studia, i sistemi di trasporto, di produzione, di cura e anche come fare le vacanze.

A New York sono mesi che non ci sono concerti, la gente ha cambiato il modo di andare al cinema e a teatro, con i turni e numeri contingentati di spettatori.

La tv la fa da padrone, soprattutto Netflix e Dazn. I passeggeri in fila alla stazione della metro rispettano le distanze. Sui bus e sulle vetture della Subway, sedili distanziati. Ugualmente nei treni si viaggia a 3 metri gli uni dagli altri e sempre super protetti. A scuola i ragazzi sono tornati ma in due turni e in classi con numeri ridotti. Funziona tanto lo smart working e anche il telestudio ha sostituito le lezioni cumulative all’Università. Tutto avviene a turno, con lunghe file, spesso con prenotazioni. Ho visto dei funerali con i parenti chiusi tutti nelle auto che seguivano il feretro. Comunque non più di venti persone. Anche in Chiesa si entra a turno. La comunione non la dà il sacerdote ma è il fedele che raccoglie la sua ostia benedetta, sola in un piattino e se la mette in bocca con uno stecchino, che poi getta via. Si va a turno a cena. Il primo è alle 18, poi ce ne sono altri alle 20 e alle 22, non più di 20/25 commensali per volta, sempre in base al locale. Per il pranzo si preferiscono i take out e lo street food. Un grande impulso hanno avuto i taxi, abbassando le tariffe. La app sul telefono ti avvisa se c’è stato contagio nei dintorni. Attorno alle app c’è stato molto dibattito, in Europa. Sono state subito accettate in Asia e maldigerite in America. Certo sapere che i tuoi spostamenti e incontri sono registrati sul telefono e visibili da parte dell’autorità, non fa piacere ma sono uno strumento di sicurezza, per chi le usa e per il prossimo. La polemica quindi, appare oziosa e inutile. Non c’è alternativa alla sicurezza di tutti. La tecnologia è sempre più al centro delle nostre esistenze, tutte le attività di vendita on line hanno avuto un successo incredibile. Sono nate nuove professioni: youtuber, web marketing, repairs mobile phone, creatore di videogiochi.  Sul modello di Amazon sono sorti dei siti di vendita di quartiere. Puoi ordinare tutto quello che ti serve, dal pane al filo per cucire, dalla carta igienica a un paio di scarpe via sito on line. Su richiesta un inviato si collega via whatsapp e mostra la merce in diretta al cliente, che sceglie. Quindi un runner porta a domicilio il pacco in contrassegno, con un ricarico del 2%. Se sono diminuiti i camerieri, altre occupazioni sono nate. Le nostre economie sono tutte in una fase di ricostruzione.

Gli Stati Uniti non sono più il paese guida di prima ma non c’è un altro paese guida! Nessuno è uscito bene dalla crisi. Anche la Cina, che si è liberata per prima del virus, ha subito il contraccolpo del calo drastico delle produzioni. Nessun paese occidentale ha ritenuto di affidare più ai cinesi pezzi delle proprie filiere. Il grande paese asiatico sta subendo un duro contraccolpo che mette in difficoltà la stessa tenuta del regime. La mancanza di libertà e la censura sono state le colpe di chi ha gestito l’epidemia nella prima parte. La morte del dottor Li Wen liang, punito perché avvertì del pericolo, resta un ricordo indelebile nel popolo cinese. Prima o poi qualcosa cambierà anche in Cina con un regime così inadeguato per i nostri tempi. L’America, con una economia stravolta e sconquassata, con un sistema sanitario messo fortemente sotto accusa, con la necessità di rivedere la politica sovranista per superare quella dei dazi, nei confronti di alleati e concorrenti, è la dimostrazione più evidente che nessuno ce la può fare da solo. Nessuna economia può bastare a sé stessa, muri o dazi che siano, siamo tutti sulla stessa barca e basta un virus, una cosina infinitesimale, per dimostrarlo a tutti. L’Europa ha fatto passi da gigante verso la solidarietà e l’integrazione delle rispettive economie e ordinamenti legali fra Stati membri ma non basta, le divisioni tra Nord e Sud permangono e così la reciproca sfiducia. Adesso il mondo è avviato alla ricostruzione e questa non poteva che avvenire all’insegna delle tolleranze e della riconoscenza tra popoli, tra paesi, tra continenti. Così anche il discorso sull’ambiente è stato ripreso, accantonando le velleità menefreghiste di Trump. Assurdamente l’uscita dall’accordo degli Usa è avvenuta il 4 novembre 2020, il giorno dopo l’elezione di Joe Biden. Il nuovo Presidente ha subito annunciato che gli Stati Uniti sarebbero rientrati in quel Trattato per il Clima, cosa che è avvenuta quest’anno. “Ci faremo portatori di un nuovo stile di vita ecologico, ha aggiunto Biden all’atto della firma, recuperando il tempo perduto, anche perché ormai è chiaro che non si può che prendere questa strada che, sicuramente, è più vantaggiosa sul piano economico”. Si può produrre meno e solo cose necessarie e ottenere vantaggi sociali per tutti, riducendo l’inquinamento.

Hell’s Kitchen è a nord di Chelsea, tra la Carnegie Hall e il Museo dell’Intrepid alla fonda sull’Hudson.

Trovandosi vicino alla Broadway e all’Actors Studio è un quartiere abitato da attori, conosciuto anche come Midtown East, mentre prima era il quartiere della classe operaia irlandese. Le case non superano i cinque piani, con le scale esterne per la fuga. Le facciate sono ocra, granata, marrone, grigio. Lungo la via si affacciano i portoni, ciascuno con una piccola rampa di scalini, ai lati dei quali ci sono due ringhiere di ghisa, che si ricongiungono con la rampa di scalini del portone adiacente. Avranno almeno un secolo.

Hell’s kitchen

Come sempre accade a New York ogni suo angolo ha qualcosa a che vedere con il cinema e la tv. Qui è nato Sylvester Stallone e hanno ambientato alcune scene del video gioco Deus Ex noto ai millennials. Qui ho appuntamento con Glen Pandolfini, una cliente di Cesare Casella, ma anche ricercatrice della High School of Environmental Studies, che a sede al 444 della West 56th Street, quindi abbastanza prossimo a Central Park. L’istituto era un tempo lo studio cinematografico della Fox.  Oggi è una scuola di ricerca sull’ambiente. Glen è una signora matura, la cui famiglia è di origini italiane, con lei affronto il tema di cosa lega questa pandemia allo sfruttamento sconsiderato dell’ambiente. A molti conservatori e sovranisti non piace sentirselo dire ma c’è un nesso e abbastanza stretto tra pandemia e degrado ambientale. Proprio quel degrado che in molti avevano negato o contro il quale non intendevano impiegare risorse economiche e finanziarie. Dovremmo cominciare a interrogarci seriamente sulle origini di questi fenomeni, forse siamo ancora in tempo a porvi riparo per il futuro. Uno studio pubblicato su “Procedings of the Royal Society” lo afferma e lo documenta. Gli autori dello studio spiegano che “i fenomeni all’origine dell’estinzione di alcune specie animali (ad es. urbanizzazione, distruzione degli habitat naturali, caccia e commercio illegale di animali esotici) sono gli stessi che aumentano le probabilità di trasmissione di agenti patogeni dagli animali all’uomo. Essi, infatti, sono tutti fattori che accrescono la vicinanza fisica tra gli esseri umani e gli altri animali, che dovrebbero invece essere lasciati a vivere secondo la loro natura, in ambienti vergini e incontaminati. “Predict” è un progetto dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, con il fine meritevole di riuscire a scoprire le pandemie in tempo. Si tratta di individuare proprio quei virus che siano in grado di passare dall’animale all’uomo, per capirne le potenzialità e la pericolosità. Lo studio è opera di alcuni ricercatori della Scuola di Medicina veterinaria del Davis’ One Health Institute dell’Università della California (Usa). Sono sotto osservazione 142 virus di origine animale, passati all’uomo dagli animali, queste infezioni si chiamano “zoonotiche” ma la responsabilità di tutto non è del caso bensì della nostra superficialità e della presunzione con cui ci avviciniamo alla natura e ai suoi equilibri delicati, manomettendoli senza scrupolo. Noi condividiamo già molti virus con gli animali domestici e con quelli che alleviamo, con loro ci scambiamo agenti patogeni 8 volte di più che con i selvatici. Fra questi ultimi poi ci sono quelli che convivono con l’uomo per vicinanza geografica o per necessità, nutrendosi dei suoi raccolti o della sua immondizia. Pipistrelli, nutrie, topi, piccioni, gabbiani, alcuni primati ma anche volpi, cinghiali, anatre selvatiche. Sono loro i più facili vettori di “zoonosi”. Per uno strano, non poi tanto, principio di contrappasso, qual è il paese che ultimamente è stato colpito più duramente dalla pandemia di Coronavirus? Gli Stati Uniti. E sono sempre loro che, da qualche anno, vengono puntualmente bersagliati da uragani e tempeste tropicali che prima si esaurivano sui Caraibi, privilegiando invece adesso Louisiana, Florida fino alla Carolina del Sud. La natura forse vuole avvisare gli americani che non sono più forti delle leggi terrestri e non possono ignorare ancora a lungo questi problemi. L’umanità si è resa colpevole di drammi naturalistici come la deforestazione, gli incendi dolosi di ampie zone dell’Amazzonia, quelli che hanno devastato l’Australia, il bracconaggio in Africa e in Asia, a danno di specie ridotte in pericolo di estinzione e estinguendone del tutto altre. Come il rinoceronte bianco, la tigre siberiana e anche il pangolino, un piccolo mammifero sdentato e con una corazza a scaglie che ricopre dorso e arti. Viene indicato come il possibile ospite intermedio tra noi e il pipistrello. Ci sono specie minacciate di estinzione dall’uomo e che, per motivi di salvaguardia, ricerca e conservazione siamo costretti a proteggere e questo causa vicinanza e pericolo di scambio virale. Se non vogliamo che la natura si rivolti contro le nostre vite, dovremmo smetterla di interagire con gli animali selvatici.

Oggi mi prendo la giornata libera. Vado al Village a vedere se trovo il figlio di un vecchio amico che viveva a Bleecker Street, negli anni ’80, quando impazzava la “disco” e veramente a New York non si dormiva. Lui lavorava come free lance a Rai Corporation, lo chiamavamo da Roma per ogni servizio, intervista, ricerca da fare negli Usa.  Negli anni 50 questo era il quartiere dei poeti della beat generation e dei musicisti. Si suonava jazz e si fumava erba nei seminterrati bui e affollati. Poi subì delle trasformazioni, come tutto, fino alle ristrutturazioni dei palazzi e al cambio degli abitanti. Gli affitti sono schizzati alle stelle, anche 8.000 dollari al mese per un appartamento! Adesso qui vivono stranieri che hanno comprato la seconda casa o ricchi personaggi dell’imprenditoria, della moda e della pubblicità.

Greenwich Village

Molti dei vecchi negozi che conoscevo non ci sono più o sono chiusi, abbandonati con le vetrate sporche e i pavimenti polverosi, coperti di cartacce. Il macellaio all’angolo Ottomanelli, un piccolo mercato, quello che aggiustava il cuoio, il negozio di vernici, chiusi. C’è un’agenzia di una banca. Portoni di palazzi rimessi a nuovo. Poca gente per strada. Molte cose sono cambiate con la pandemia. Tuttavia Charlie vive ancora nell’appartamento di suo padre, con la giovane moglie. Non sta lavorando perché il bar dove guadagnava bene è fallito. La sua specialità sono i cocktails. Non è facile riciclarsi. Cerca nei pochi bar che hanno riaperto ma nessuno se la sente di impiegare del personale in più. Il fatto è che sono aumentati i poveri nel mondo, ben 195 milioni di persone sono disoccupate. Gli Stati Uniti pensano di affrontare di petto il problema utilizzando the unemployment benefit, lo stipendio di sussistenza per i disoccupati. Comunque resta legato a quanto guadagnavano prima di perdere il lavoro. Difficilmente questa gente troverà un impiego né ora né poi. La tecnologia e l’automazione non lascia ben sperare in tal senso. Del resto l’industria ottocentesca è morta e sepolta. Stare vicini nelle catene di montaggio sarebbe anche un rischio per la società. Oggi ci pensano i robot. Una persona sola può guidare una linea di produzione. I colletti bianchi non servono in ufficio, possono lavorare on line dal loro salotto e comunicare tramite skype e whatsapp. Si risparmia in consumi, in tempo, in malattie e si lavora su obbiettivi precisi, non a orario. Questo riduce l’acquisto di materie prime. Il petrolio sta per essere abbandonato dalle industrie, che lanciano i modelli elettrici di trasporto pubblico e privato. Si torna in parte al vecchio. Un vecchio rivisitato. La storia è sempre una ripetizione ma o in meglio o in peggio, come una spirale. La bicicletta adesso è tornata di moda, magari con l’ausilio del motore elettrico. Si smonta e si ripone nel bagagliaio del Suv e si usa ovunque, in città come in campagna. Non avevo mai visto tanta gente in bicicletta sui viali di Manhattan e a Central Park.

Chi ha potuto è tornato al paese o in campagna. S’è visto che avere un orto ha salvato la vita a tanti, che adesso non hanno il problema di cosa mangiare. Certo non sono contadini analfabeti e sprovveduti. È gente che ha studiato, sa come investire i risparmi, come pianificare una produzione, come commercializzare i prodotti. Hanno computer, I pad e telefoni, siti web e blog.  Il telefono è il re delle nostre giornate. Tutto passa per lo smartphone: l’accesso a casa, i contatti con parenti e amici, le frasi d’amore, i ricordi fotografici, milioni di foto, i documenti identitari, l’agenda, le ricerche, l’agenzia di viaggio, la gestione del conto in banca, ora anche i nostri percorsi e chi abbiamo incontrato negli ultimi quindici giorni. Non tutto va meglio ma la solidarietà è aumentata. Molti sono stati i gesti di filantropia. Bill Gates di Microsoft ha donato un miliardo di dollari per sostenere la produzione del vaccino, testato presso lo Jenner Institute dell’Università di Oxford, nel Regno Unito. La scoperta del vaccino è merito della Advent-Irbm di Pomezia, operante nel settore della biotecnologia molecolare, della scienza biomedicale e della chimica organica, gestita da Piero Di Lorenzo, che ho conosciuto come produttore di spettacoli televisivi su Raiuno, nei primi anni 2000. Anche la Bloomberg Philanthropies ha donato più di 100 milioni di dollari per la realizzazione di un programma di formazione on line e di certificazione dei contatti. Il Dipartimento della Sanità dello Stato di New York ha sviluppato in seguito dei protocolli e processi per agevolare il tracciamento dei contatti. Il muro al confine col Messico è un lontano ricordo. A che serve un muro su un confine, se poi i virus lo attraversano e ci possono annientare in un paio di mesi?

AVVERTENZA. I dati, i personaggi e le informazioni che trovate in questo articolo sono in parte veri e in parte un’opera di fantasia. Le vicende di viaggio sono ambientate in un futuro ipotetico, anche se abbastanza possibile.