Fase 2

Contact tracing: le app più affidabili del mondo contro il Coronavirus

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Mezzo mondo è alle prese con i tentativi di utilizzare i dispositivi di telefonia mobile per aiutare a prevenire i contagi, visto che per ancora parecchi mesi non si potrà abbassare la guardia.

Rubrica settimanale SosTech, frutto della collaborazione tra Key4biz e SosTariffe. Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Ora che la fase 2 è iniziata, la grande paura di tutti – confessata o meno – è che alla fine si tratti di una libertà provvisoria, quindici giorni in cui ci si potrà illudere di aver lasciato il Coronavirus alle spalle prima che i contagi tornino a salire e un nuovo lockdown diventi una prospettiva concreta.

Posto che cruciale sarà il comportamento dei singoli, dal distanziamento sociale all’uso di mascherine, passando per la sanificazione dei locali, è illusorio pensare che con un po’ di attenzione in più la situazione possa risolversi da sé.

Contact tracing: l’app Immuni

Ancora troppi gli interrogativi intorno al virus, la sua mortalità, le occasioni di contagio (chi sono quelli che ancora oggi si ammalano, che profili hanno, perché accade?); non sempre le comunicazioni istituzionali sono chiarissime; e anche su quella che sembrava la soluzione a portata di tasca, l’app Immuni sviluppata da una delle realtà di maggior successo nello sviluppo di applicazioni mobili in Italia (Bending Spoons), tarda ad arrivare sui nostri smartphone. Già, perché il contact-tracing, per quanto potenzialmente utilissimo con la sua capacità di segnalare spostamenti tramite geolocalizzazione o Bluetooth, porta con sé una serie di rischi per la privacy.

Per alcuni, tali preoccupazioni devono passare in secondo piano, vista l’emergenza; ma non si può semplicemente derubricare tutto a paranoia, considerando che consegnare a terzi i dati su chi abbiamo frequentato, dove e per quanto tempo ha delle implicazioni da non sottovalutare.

L’esempio della Corea e di Singapore

Questi interrogativi non riguardano ovviamente solo l’Italia, che è stata solo colpita prima di altri Stati dalla pandemia: mezzo mondo è alle prese con i tentativi di utilizzare i dispositivi di telefonia mobile per aiutare a prevenire i contagi, visto che per ancora parecchi mesi non si potrà abbassare la guardia.

Gli approcci per le app di questo tipo possono essere sostanzialmente due, a seconda di quanto controllo governativo si è disposti a concedere. Da una parte le app centralizzate, come quella in studio in Gran Bretagna – che però forse tornerà sui suoi passi – oltre ovviamente alla Cina e all’australiana COVIDSafe; dall’altra le decentralizzate, che utilizzano (sarà così per Immuni) le API messe a disposizione da Google e da Apple o altri modelli come il protocollo DP-3T in sviluppo in Germania, Austria, Svizzera, Lituania, Estonia, Finlandia e Irlanda,

L’esempio che tutti, sulle prime, hanno voluto emulare è quello della Corea del Sud, che stando ai dati è riuscita, grazie a una severissima politica di test e monitoraggi, a contenere l’epidemia molto meglio della quasi totalità del pianeta. Ma, come ha raccontato Max S. Kim sul New Yorker e poi in un’intervista da StartupItalia, tutto ciò ha un costo: per cominciare lo Stato asiatico non usa un’app, ma un procedimento incrociato che unisce a test e tamponi eseguiti in modo capillare un sofisticato software, chiamato Epidemic Investigation Support System, che analizza i dati in arrivo dai telefoni dei cittadini e li incrocia (dagli acquisti effettuati con la carta di credito agli spostamenti registrati dal GPS) con quelli degli altri. Un controllo ben più invasivo di quello pensato per un’app come Immuni (che tra l’altro non sarà obbligatoria, ma che dovrà essere installata da almeno il 60% degli italiani perché possa servire a qualcosa).

Chi non apprezza questo sistema, e vorrebbe uscirne per privacy, in Corea non può: i dati della smart city sono già tutti in possesso del governo. È andato tutto liscio, ma in Italia una cosa del genere sarebbe possibile? I dubbi sono, comprensibilmente, tanti. Meglio quindi prendere come modello TraceTogether, l’app di Singapore che per prima ha utilizzato il Bluetooth come tecnologia in grado di equilibrare privacy e utilità sanitaria. La questione non è banale, e bisognerà stare attenti perché cominciano già a spuntare i primi malware che, fingendosi app anti-Covid 19, non vedono l’ora di entrare nei nostri smartphone, con effetti disastrosi.

Le app più affidabili secondo il Mit

Adesso è arrivato l’autorevole parere del Mit, il Massachussets Institute of Technology, per mettere a confronto le diverse app di tracciamento messe a punto (o ancora in progettazione) dai vari Paesi del mondo, con un voto generale che si articola su diverse variabili, come la volontarietà dell’installazione, la tecnologia utilizzata, la distruzione dei dati non più necessari per il tracciamento. Immuni, anche se ancora non è pronta, si è comportata bene, ma spulciando il database si possono valutare i diversi approcci: ad esempio l’India è l’unica democrazia a rendere la sua app obbligatoria per milioni di persone, e Aarogya Setu (che si può tradurre come “ponte della salute”) utilizza non solo il Bluetooth ma anche i dati di geolocalizzazione, tanto che le perplessità non mancano.

Secondo B.N. Srikrishna, già giudice della Corte Suprema indiana e impegnato nel far approvare al Paese una legge sulla privacy dei dati, “il governo sta praticamente obbligando i cittadini e prende i loro dati senza il consenso: una volta che i diritti fondamentali vengono attaccati da ogni lato, senza che vi sia nessuno a cui rendere conto, e senza l’aiuto dei tribunali, la situazione è peggiore che in Cina”.

Contact tracing In Europa

Nella spaccatura mondiale, la strategia che sembra riscontrare il maggior successo è quella decentralizzata, che fa uso delle API di Google e Apple, ma ci sono eccezioni che hanno fatto scalpore (come la Gran Bretagna e la Francia, ma anche la Norvegia;  la vicina Irlanda, ancora una volta, ha fatto una scelta diversa dai suoi vicini). Come l’Italia e la Svizzera, anche la Germania ha accettato l’uso delle API di “Gapple”, come vengono indicate in gergo, dopo aver accarezzato sulle prime il progetto di un’applicazione centralizzata. L’Irlanda ha detto no al Bluetooth per la sua scarsa affidabilità, preferendo la più rischiosa geolocalizzazione (e pensare che il nome del protocollo viene da un re vichingo, anche se danese) e a sorpresa tra i primi a operare per avere un’applicazione per il Covid-19 è stata Cipro.

Per le app con approccio centralizzato i problemi non sono pochi: in Australia gli esperti hanno criticato pesantemente il governo perché non ha dato risposte esaurienti sui problemi relativi alla trasparenza e alla privacy, ma soprattutto il grande mistero rimane la tecnologia utilizzata dall’app cinese, sulla quale si hanno pochissime informazioni. La spaccatura, comunque, è evidente: oggi quasi tutti hanno uno smartphone, con tariffe sempre più economiche (in Italia SosTariffe.it aiuta a scoprire le più convenienti), ma il metodo per sfruttarlo per contrastare l’epidemia rischia di confondere ancora di più le acque.

Fonti

https://docs.google.com/spreadsheets/d/1ATalASO8KtZMx__zJREoOvFh0nmB-sAqJ1-CjVRSCOw/edit#gid=0

https://www.newyorker.com/news/news-desk/seouls-radical-experiment-in-digital-contact-tracing

https://tg24.sky.it/tecnologia/2020/05/13/coronavirus-app-tracciamento-mit

https://en.wikipedia.org/wiki/COVID-19_apps