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Banche. La digital transformation migliora l’efficienza, ma impoverisce il capitale umano?

di Maurizio Baravelli, professore ordinario di Economia e gestione della banca presso la Sapienza Università di Roma |

Molti osservatori la considerano la soluzione per rilanciare modelli di business in crisi ma anche la chiave del successo della banca del futuro. Si parla però poco dell’impatto sul lavoro bancario.

1.Come cambia il lavoro nella banca digitale

La tecnologia digitale è da anni al centro del cambiamento dell’organizzazione della banca. Molti osservatori la considerano la soluzione per rilanciare modelli di business in crisi ma anche la chiave del successo della banca del futuro. Si parla però poco dell’impatto sul lavoro bancario. Da una recente ricerca su come stanno cambiando gli assetti direzionali delle banche (Baravelli e Pesic 2018) è emersa la tendenza alla riduzione del ruolo di middle management e all’appiattimento delle strutture organizzative. Ma contrariamente a quanto afferma la teoria della flatter organization invece di un conseguente empowerment nei confronti del personale si registra, soprattutto nei grandi gruppi bancari, un aumento dell’accentramento decisionale e al tempo stesso una riduzione delle autonomie delegate al personale.

Il lavoro bancario risulta ormai proceduralizzato in gran parte delle aree di business e controllato tramite reporting digitali dall’alta direzione che non si serve più a tal fine delle linee manageriali intermedie. Ciò non si spiega unicamente con l’obiettivo di ridurre i costi, in questo periodo di crisi economica, snellendo e appiattendo le strutture, ma è anche il risultato di una regolamentazione bancaria sempre più invasiva che impone alle direzioni maggiori controlli interni. In tal modo le banche sono spinte, potremmo dire a ritroso nel tempo, verso il modello tipico della burocrazia meccanica molto diffuso in passato quando la banca non era ancora informatizzata.

Emerge quindi evidente un paradosso. La digitalizzazione dei processi invece di valorizzare il capitale umano della banca tende a svilirlo imponendogli di assumere ruoli burocratici, essenzialmente operativi. Riguardando gran parte del personale, ciò contrasta con la teoria del business process reengineering e della lean organization secondo cui le ICT dovrebbero invece liberare il lavoro dalle attività routinarie, elementari e ripetitive e aumentare il tempo da dedicare alle attività intellettuali. Inoltre, assumendo le procedure digitali un ruolo di guida del lavoro esecutivo, la conoscenza si accentra presso il vertice aziendale e soprattutto le strutture di staff.

In passato i quadri direttivi, i funzionari e in genere il personale delle banche erano depositari di un sapere molto qualificato, costruito con l’esperienza, ed erano in grado di interloquire con le direzioni sul piano strategico, dell’evoluzione dei mercati e della valutazione delle imprese. La conoscenza era quindi distribuita nel contesto aziendale. Oggi queste conoscenze sono molto accentrate. Sono soprattutto implicite nelle procedure, nei sistemi esperti e nell’intelligenza artificiale. Sono questi sistemi “intelligenti” a guidare il comportamento delle strutture operative. Non vi è più bisogno che il personale disponga di una conoscenza complessa e interpretativa dei fenomeni finanziari e di capacità decisionali. Al personale si richiede essenzialmente di saper utilizzare correttamente le procedure e di rispettare la normativa. Così la relazione tra computer e addetti si è ribaltata: alla macchina e alla procedura digitale si riconosce un’intelligenza mentre l’utente diventa strumento operativo.

La diffusione nella banca della tecnologia digitale ha modificato di conseguenza sia il grado di accentramento/decentramento delle decisioni sia la gestione dell’informazione e della conoscenza. È su questa trasformazione e sulle sue implicazioni che intendiamo proporre una discussione alla luce di una ricerca, tuttora in corso, su come sta cambiando l’organizzazione del lavoro nelle banche e nei gruppi bancari italiani (Baravelli 2020).

2.Conoscenza ed evoluzione del potere nella banca digitale

Per effetto sia della crisi economica sia di una regolamentazione più restrittiva, il vertice della banca è diventato molto sensibile ad avere tutto più direttamente sotto controllo. La piramide organizzativa è stata così semplificata e appiattita. È migliorata l’efficienza ma verosimilmente si è ridotta l’efficacia direzionale. È infatti aumentato il carico di lavoro direzionale, la dialettica interna è scomparsa, si è affievolito lo spirito di corpo e si sono indeboliti i processi di learning organization. Ciononostante il top management non sembra preoccuparsi più di tanto. Pare infatti fiducioso di poter governare la maggiore complessità grazie proprio alle ICT.

Siamo quindi di fronte a una sfida alla “razionalità limitata”? Come osservava Herbert Simon, le decisioni aziendali non sono mai assolutamente razionali. Esse sono condizionate dalle informazioni disponibili, dai limiti cognitivi della mente dei manager e dal tempo in cui devono essere prese. Di conseguenza possono risultare solo relativamente soddisfacenti. Oggi però il contesto è mutato ed è molto diverso da quando il premio Nobel per l’economia elaborava la sua importante teoria. Con le macchine che apprendono (machine learning) si pensa che possano aumentare la razionalità e l’oggettività delle decisioni grazie a una superiore capacità previsiva dei comportamenti resa possibile dall’ elaborazione elettronica di una mole di informazioni in passato inimmaginabile.

In realtà, che le banche stiano recuperando sul piano informatico i ritardi accumulati nei confronti di altri operatori e settori e che sia in corso lo sviluppo di un nuovo modello di banca è un dato che emerge dalla nostra ricerca (Baravelli e Pesic 2018). Infatti è grazie alla tecnologia digitale che il top management è indotto ad accorciare la catena gerarchica potendo controllare direttamente l’operatività. Quanto alla strategia esso ritiene di poterla pure accentrare con un buon staff di supporto. Così le strategie sono calate dall’alto senza confronto, dialettica interna e coinvolgimento delle strutture operative.

Ma questo modello “organizzativo-digitale” emergente, oltre a essere più efficiente, consente alla banca di apprendere, di sviluppare nuova conoscenza e di innovare, che è la condizione necessaria per la sua vitalità in un contesto competitivo? A nostro avviso, la banca corre il rischio di subire, senza avvedersene o avvedendosene ma trascurandone gli effetti, un impoverimento del proprio capitale umano. In tal modo, il vertice aziendale rischia di perdere il controllo della banca pensando invece di rafforzarlo.

Intanto vi sarebbe molto da obiettare sull’efficacia di sistemi di pianificazione accentrata. La tecnostruttura di supporto non essendo coinvolta nell’operatività, da cui resta distante, non può che ragionare secondo logiche deduttive, analisi macroeconomiche, scenari e modelli di simulazione. Vi sono quindi seri dubbi sull’ effettiva superiorità diagnostica e progettuale di questi approcci rispetto a sistemi partecipativi, a flussi informativi e a indicazioni che possono provenire anche dal basso. Né si può ritenere che le innovazioni di qualsiasi genere proposte dalla base, a prescindere dalla loro rilevanza, siano da scartare perché dovendo essere digitalizzate creano problemi di integrazione per cui l’innovazione non può che essere di competenza del centro che può gestirla in modo sistemico.

Tutto ciò potrebbe ulteriormente rafforzarsi nella prospettiva di una banca totalmente virtuale e di un prevalente uso dei Big Data e degli algoritmi intelligenti. Si ritiene che essi siano un fondamentale supporto alle decisioni perché consentono di indentificare correlazioni recondite tra grandi masse di dati con cui predire il comportamento della clientela, l’andamento dei rischi, la probabilità di scenari futuri. In tal modo il ruolo della tecnostruttura è destinato a consolidarsi con l’uso del machine learning.

2. Banca digitale: quale apprendimento?

Se grazie alla digitalizzazione le banche hanno migliorato la propria efficienza con lo snellimento, l’accentramento e il taglio dei costi, è lecito chiedersi se l’impatto che ne è derivato sull’organizzazione, sulla cultura aziendale e sulle competenze è pure favorevole ad aumentare la loro capacità di innovazione. Infatti non basta puntare all’efficienza, la banca deve saper essere anche innovativa e creare nuovi modelli di business per adattarsi al cambiamento ambientale. Pertanto è necessario che essa apprenda, perché apprendere è una precondizione essenziale per innovare. Quanto alla possibilità che la tecnologia digitale si sostituisca ai decision maker, la questione interessa non solo l’intelligenza artificiale ma soprattutto il futuro della cosiddetta fisica sociale che studia, sulla base delle tracce digitali, i comportamenti individuali e di gruppo (Pentland 2015).

C’è però da dubitare, a nostro avviso, che il modello organizzativo-digitale “rafforzato” sia in grado di produrre nuova conoscenza. Secondo gli esperti, le macchine non sono in grado di produrla; esse non ci dicono infatti quali sono i legami diretti tra causa ed effetto. Le correlazioni statistiche non spiegano questi legami né danno conto dei fenomeni sottesi. L’intelligenza artificiale indica senza spiegare (Benanti 2020).

Pertanto pensare che la trasformazione digitale possa eliminare il lavoro intellettuale nella banca significa non comprendere che la banca, come qualsiasi altra impresa, non può essere gestita come mero sistema “input-output”; per crescere e innovare deve essere gestita come “sistema cognitivo” e quindi il suo capitale intellettuale deve essere valorizzato e sviluppato. A parte il sorgere di un clima organizzativo demotivante e il disengagement del personale ridotto a ruoli sempre meno professionalizzanti, non fare conto sul management intermedio è proprio un modo per ridurre la capacità di apprendimento.

Uno staff lontano dal mercato non è certo che possa avere, anche grazie a supporti digitali e informativi sofisticati, la stessa capacità di percepire e comprendere tempestivamente i mutamenti della domanda, le nuove opportunità e le minacce competitive, che invece hanno le strutture a diretto contatto con la clientela. E anche la creazione di unità accentrate con il compito di occuparsi dell’innovazione presenta gli stessi limiti qualora non interagiscano e si confrontino con il resto della struttura. Il middle management ha sempre rappresentato un punto di accumulo di conoscenza viste le sue funzioni di collegamento tra centro e periferia nonché di gestione del personale, e soprattutto il suo ruolo strategico di mediazione tra gli input del vertice e i feedback del mercato. La teoria organizzativa esclude che un assetto manageriale verticistico modellato solo sull’efficienza con un personale essenzialmente esecutivo sia in grado di sviluppare una cultura dell’innovazione e produrre nuova conoscenza.

Si consideri, per fare un esempio, il processo di valutazione del merito creditizio. Gli addetti ai fidi non sono più chiamati a esprimere il loro giudizio ma sono sostituiti da modelli statistico-matematici e da sistemi di credit scoring. In tal modo per la valutazione del rischio di credito bastano operatori che caricano il sistema digitale con una serie definita di dati quando questi non affluiscono direttamente a tale sistema per via telematica. Si sostiene che un modello di valutazione automatizzato, oltre a essere meno costoso, valuta in modo “oggettivo”; ma in realtà la banca rischia di allontanarsi dalla vera conoscenza del cliente e dai suoi effettivi problemi finanziari perché non tutte le informazioni, anche quelle rilevanti, sono quantificabili, codificabili e trasferibili con procedure digitali. Di conseguenza, le banche non solo non è detto che riducano le asimmetrie informative nei confronti dei clienti, ma subiscono pure un impoverimento delle competenze e delle conoscenze dei propri addetti. Infatti non interagendo con il cliente, non apprendono dal cliente. Così si consolidano vere e proprie asimmetrie conoscitive tra la banca e le imprese quando queste innovano e la banca resta al di fuori dei circuiti della nuova conoscenza (Baravelli 2019).

4. Banca digitale, economia e società

Negli ultimi anni si sta discutendo molto se con la digitalizzazione siamo entrati in una fase di transizione verso un cambio d’epoca che sta modificando il nostro modo di pensare, di agire e i nostri stili di vita. I temi sul tappeto riguardano questioni importanti quali le relazioni tra tecnologia digitale e qualità della vita, tra tecnologia digitale e libertà ma anche la portata antropologica della trasformazione tecnologica e la possibilità che i problemi siano risolvibili con i computer.

Quanto abbiamo detto sui nuovi modelli “organizzativi-digitali” delle banche potrebbe essere interpretato come espressione di una nuova cultura bancaria. Anche la Banca d’Italia riconosce l’utilità del machine learning. È quindi verosimile che siamo all’inizio di un percorso trasformativo dei tradizionali modelli bancari sebbene la digitalizzazione abbia subito un’accelerazione nelle banche per effetto della crisi economica.

Il tema del capitale umano e della conoscenza rientra in tale dibattito. Secondo la nostra analisi, la banca rischia un impoverimento conoscitivo se non corregge il tiro. La sua capacità competitiva dipende non solo dal suo sviluppo tecnologico ma anche dallo sviluppo del suo capitale intellettuale. È quest’ultimo alla base dell’innovazione. Con i tagli del personale si stanno riducendo le competenze tradizionali bancarie perché i nuovi entranti vengono scelti con competenze prevalentemente tecnologiche. Quindi a nostro avviso il modello “organizzativo-digitale” richiede correzioni e misure che ripristinino e presidino la learning function della banca nell’ottica non solo dell’ottimizzazione dell’esistente ma anche di una continua innovazione ed esplorazione di nuovi business. Il che significa stile direzionale meno verticistico, coinvolgimento, deleghe, motivazione e valorizzazione del middle management, creazione di infrastrutture di apprendimento, revisione dei ruoli operativi, condivisione della conoscenza (Schuchmann e Seufert 2015).

Se guardiamo al piano economico e sociale, la concentrazione in poche mani di grandi volumi di dati raccolti tramite strumenti digitali, che consentono di acquisire conoscenza sul comportamento umano, può costituire un pericolo. A parte le interferenze nella privacy, essa determina un enorme potere da parte dei soggetti che la detengono (Zuboff 2020). Ci sono quindi analogie con la banca digitale. Questa, se non adotta correttivi, alimenta disuguaglianze conoscitive interne tra strutture di vertice e strutture operative che mettono in posizione di forte subordinazione il personale e che possono pregiudicare la capacità di innovazione. La rivoluzione digitale comporta indubbiamente grandi benefici ma deve essere adeguatamente regolamentata a livello sociale così come nelle imprese e nelle banche il management deve gestire la trasformazione digitale tenendo conto del giusto equilibrio fra tecnologia e capitale umano.

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Benanti P. (2020), Digital Age. Teoria del cambio d’epoca. Persona, famiglia e società, Edizioni San Paolo, Milano.

Baravelli M. (2019), “Le asimmetrie conoscitive tra banche e imprese. Implicazioni per il sistema finanziario nell’era dell’innovazione”, Quaderni di ricerca sull’artigianato, n. 2.

Baravelli M. e Pesic V. (2018), Scenari, evoluzione dei modelli di business e cambiamento dei ruoli manageriali nelle banche, Rapporto Fist Cisl-Università Sapienza, gennaio.

Baravelli M. (2020), “Come sta cambiando l’organizzazione del lavoro nelle banche”, Relazione al Convegno “Gender Gap e modelli organizzativi”, FISAC -CGIL, Napoli 23 gennaio.

Pentland A. (2015), Fisica sociale. Come si propagano le nuove idee, Università Bocconi Editore, Milano.

Schuchmann D. and Seutefert S. (2015), “ Corporate Learning in Times of Digital Transformation: A Conceptual Framework and Service Portfolio for the Learning Function in Banking Organizations”, iJAC, Vol. 8, Issue 1.

Zuboff S. (2019), Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poveri, Luiss University Press, Roma.